doggy bag

DOGGY SARÀ LEI – IL 25% DEGLI ITALIANI RITIENE CHE LA “DOGGY BAG” SIA DA CAFONI O DA POVERACCI, MENTRE IL 20% TALVOLTA LA CHIEDE – EPPURE LA BATTAGLIA CONTRO GLI SPRECHI ALIMENTARI È IN CORSO IN TUTTA EUROPA – A BERLINO CI SONO FRIGORIFERI PUBBLICI DOVE LASCIARE GLI AVANZI PER CHI HA BISOGNO

1. DOGGY BAG? NO, GRAZIE GLI ITALIANI SI VERGOGNANO

Alberto Mattioli per “la Stampa”

 

«In questa casa non si butta via niente!», proclamavano le nonne dell' evo dell' Artusi, e del resto di regola cucinavano così bene che niente avanzava. Quindi non si capisce perché, abituati in casa a finire quel che c' è nel piatto, al ristorante si possa tranquillamente lasciarlo lì. Eppure è così: secondo un sondaggio della Coldiretti, il 20% degli italiani talvolta porta a casa i resti della cena fuori, ma il 25 ritiene che sia un gesto da maleducati o da poveracci o da cafoni, quindi si vergogna di chiedere al ristoratore di impacchettarglieli.

 

DOGGY BAGDOGGY BAG

Insomma, per quel che riguarda la «doggy bag», la sporta nella quale si portano a casa gli avanzi, in teoria per darli al cane, più spesso per metterli nel microonde e riabbuffarcisi, un italiano su cinque sarebbe disposto a usarla, uno su quattro no. Nel Paese dove in media ogni cittadino butta nella spazzatura 76 chili di cibo all' anno, e dove è appena stata solennemente firmata la Carta di Milano contro gli sprechi alimentari, non è una buona notizia.

 

In effetti la «doggy bag», la borsina nella quale si portano a casa gli avanzi della trattoria, in teoria per darli al cane, più spesso per metterli nel microonde e riabbuffarcisi, è una tipica usanza che certifica le differenze culturali e psicologiche fra gli americani da una parte e gli europei in generale, e quelli del Sud in particolare, dall' altra. Certo: in America le porzioni sono così esagerate che spazzolarle tutte è praticamente impossibile. Ma nessuno si vergogna a chiedere al cameriere la borsina e a portare via gli avanzi, tanto più che li ha pagati.

 

Doggy 
Bag 
Doggy Bag

L' esempio di Michelle Nel 2009, quando venne per la prima volta a Roma, Michelle Obama andò a cena da «Maccheroni», una trattoria romanissima vicino al Pantheon. Dopo aver sbafato un dietetico menu di carbonara, amatriciana e lasagne, stupì tutti facendosi impacchettare i resti. Forse nel suo caso si trattava di un gesto spettacolare a favore delle campagne antispreco più che dell' eventualità che le venisse un languorino nel cuore della notte, ma negli States si tratta comunque di una pratica generalizzata. La popstar Rihanna, una che probabilmente ha la carta di credito di platino tempestato di diamanti, è stata di recente paparazzata mentre usciva da un ristorante di Santa Monica portando sottobraccio la bottiglia di vino iniziata e non finita.

 

Da questa parte dell' Atlantico, invece, la pratica è quasi sconosciuta. Men che meno in zona mediterranea, dove prevale l' ancestrale mentalità barocca e spagnolesca della «bella figura» e del «cosa dirà la gente». Ancor più bizzarra, se si pensa che il bon ton predicato (e praticato, se necessario, a suon di sberle) dalle sullodate nonne predicava «di non lasciare nulla nel piatto» e di finire tutto, compreso il pane, del resto oggetto di una venerazione quasi religiosa.

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Era il retaggio di ataviche povertà, di epoche in cui le diete erano più subite che volute, e il problema non era quello di ingrassare, ma di mangiare a sufficienza (e senza frigoriferi, poi). Appunto in Spagna impazza tuttora «la ley del pobre», la legge del povero: «antes reventar que sobre», che si potrebbe tradurre come meglio mangiare fino a scoppiare che buttar via gli avanzi. E ciononostante, al ristorante è del tuto normale che quel che resta si rimandi in cucina e da lì finisca nella pattumiera.

 

Le cose cambiano Però anche in Europa le cose stanno cambiando. A Berlino esistono in due quartieri frigoriferi pubblici dove lasciare gli avanzi per chi ha bisogno. In Francia è appena stata approvata la legge che istituisce il reato di «spreco alimentare» (fino a due anni di galera, e non è che nelle carceri francesi cucini Ducasse) e a Lione è partito un progetto pilota per generalizzare l' uso del «doggy bag», ma ribattezzato «gourmet bag» per evitare l' odiato inglese e titillare il già ampio ego degli chef. Idem in Spagna dove la sportina per il (presunto) cane viene promossa con lo s logan «No lo tiro», non lo butto.

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Anche in Italia qualcosa si muove. Di recente, la Cassazione ha dato ragione a un cliente che voleva portarsi a casa gli avanzi e torto al ristoratore trentino che non glieli aveva voluti impacchettare. E il Comieco (alias il Consorzio nazionale recupero e riciclo degli imballaggi a base cellulosica), in collaborazione con Slow Food, ha lanciato un' iniziativa, «Se avanzo mangiatemi», per prendere i consumatori spreconi sul loro punto debole, il timore di perdere la faccia.

 

Una squadra di designer e di illustratori ha creato borsine per gli avanzi così chic che nessuno dovrebbe più vergognarsi di chiederle, e del resto nei 75 ristoranti lombardi dove sono già disponibili vanno, pare, benissimo. Insomma, un compromesso molto italiano: «doggy bag»sì, purché griffata.

 

 

2. «MACCHÉ SCANDALO DECIDE IL CLIENTE E SPRECARE IL CIBO È SEMPRE PECCATO»

Intervista di Alberto Mattioli allo chef stellato Matteo Baronetto per “la Stampa

 

Matteo Baronetto è il giovane e stellato chef del «Cambio» di Torino, un ristorante così storico ed elegante che chiederci un «doggy bag» potrebbe sembrare sconveniente quasi come bestemmiare alla messa del Papa.

 

MATTEO BARONETTO DEL CAMBIO DI TORINOMATTEO BARONETTO DEL CAMBIO DI TORINO

Chef, qualcuno lo fa?

«Di rado. Succede talvolta con gli stranieri e sempre alla fine del pasto, per la piccola pasticceria che serviamo con il caffè.

Piace tanto che qualcuno chiede di portarsi a casa i dolcetti che restano».

 

Voi vi scandalizzate o li impacchettate? Oppure li impacchettate scandalizzati?

«Nessuno scandalo, per carità. È una scelta del cliente e in fin dei conti è roba sua, visto che l' ha pagata. Succede anche con le bottiglie di vino stappate e non vuotate: non c' è nulla di male a finirle dopo a casa. Tanto più che quel che avanza io, ovviamente, lo butto via, quindi viene sprecato».

 

Ma siete attrezzati?

 «Una "doggy bag" specifica non l' abbiamo. Ma accanto al ristorante c' è una vecchia farmacia che adesso è diventata la nostra pasticceria, quindi in ogni caso le borsine con il logo del "Cambio" ci sono».

 

L' eleganza è salva, dunque. Ma perché c' è ancora questa differenza fra gli stranieri, e in particolare gli anglosassoni, e gli italiani?

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«È un problema culturale o forse addirittura psicologico. Da una parte, l' idea che l' ho pagato, dunque è mio, dunque non lo spreco. Dall' altra, la paura di fare una brutta figura, di essere considerato quello che guarda al centesimo. Mi sembrano due posizioni entrambe legittime, ma personalmente non trovo che ci si debba vergognare a chiedere la "doggy bag"».

 

Non c' entra anche il fatto che nei ristoranti americani le porzioni siano molto più abbondanti che in quelli europei?

«Questo dipende molto dalle tipologie dei locali. Non credo che un ristorante gastronomico americano serva piatti molto più pieni che uno italiano, e nei locali "medi" la differenza non è poi così evidente. Aggiungo che in ristorante "medio" americano c' è molta meno scelta che in un pari categoria italiano. Ma questo è un altro discorso».

 

Resta il fatto che da entrambe le sponde dell' Atlantico è iniziata una specie di crociata contro lo spreco alimentare. Condivide?

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«Certamente. Sprecare è sbagliato. Ricordo che quando lavoravo da "Cracco Peck" a Milano ogni sera consegnavamo ai frati il pane avanzato. E trovo bellissima l' iniziativa del Refettorio ambrosiano, dove Massimo Bottura e altri grandi chef cucinano gratuitamente gli avanzi per i poveri. Anzi, mi piacerebbe che si facesse qualcosa di simile anche a Torino».

 

Non è un ritorno al passato, quando le mamme imponevano di finire tutto quello che c' era nel piatto?

«Forse sì. Ma lo spreco non è una virtù. E tornare a certi valori, tutto sommato, è una buona cosa».

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