
“FBI CORROTTA, FUORI CONTROLLO, È DIVENTATA IL GRANDE FRATELLO DI TRUMP” - TERRY ALBURY, EX AGENTE DELL'FBI CONDANNATO PER AVER INVIATO DOCUMENTI AL SITO "THE INTERCEPT”, ELENCA GLI ERRORI NEGLI ANNI DI BUSH JR E OBAMA CHE HANNO TRASFORMATO L'FBI NELLA CLAVA DELLA CASA BIANCA CANCELLANDO "OGNI REGOLA NEL NOME DI UN PRESUNTO "ANTITERRORISMO": "CON QUESTA SCUSA, SI SONO FATTE ATROCITÀ IMMANI. L'ETICHETTA 'TERRORISTA' È UN MODO PER TRUMP DI MANTENERE LA PROPRIA SUPREMAZIA CONTRO CHIUNQUE OSTACOLI LA..."
Tonia Mastrobuoni per “il Venerdì di Repubblica” - Estratti
Il Grande fratello che consente oggi a Donald Trump di condurre la sua violenta campagna persecutoria contro immigrati o avversari politici «è il risultato della destra e della sinistra» degli anni di Bush jr e Obama.
Perché se l'Fbi è diventata la clava di un'Amministrazione che punta a schiacciare chi dissente o chi è diverso o straniero o di sinistra, è anche colpa di governi di ogni colore che hanno continuato a proteggere l'Agenzia anche quando era mutata da forza investigativa a terza gamba di un apparato dei servizi che già includeva la Cia e l'Nsa e che ha cancellato ogni regola nel nome di un presunto "antiterrorismo".
L'America post-11 settembre ha trasformato la sorveglianza in una vera e propria epidemia. E Terry Albury, per diciassette anni un brillante agente del l'Fbi, ha denunciato il clima razzista che respirava ogni giorno nel suo ufficio a Minneapolis – «spesso lì ero l'unico agente nero» –, con abusi diventati insostenibili, tanto da indurlo a passare alcuni documenti interni al sito investigativo Intercept.
Ha pagato quel leak con una condanna nel 2018 a quattro anni di carcere. E oggi, ammette, è un dissidente, un uomo «completamente solo». Di recente ha partecipato per la prima volta a una conferenza in Europa, al Disruption Network Lab a Berlino. A lungo non ha parlato con la stampa.
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Albury, sapeva cosa rischiava quando diede a Intercept i documenti Fbi che dimostravano metodi investigativi basati su pregiudizi verso i diversi, gli attivisti o gli immigrati?
«Certo. Ma c'era una parte di me alla quale non importava. È stato un imperativo morale. Ci sono cose più importanti della sensazione di sicurezza che ti può dare un lavoro o una casa nei sobborghi o una macchina in garage.
E del resto non ho mai giurato di difendere l'Fbi ma il popolo americano. (...) Ai tempi dell'università feci un periodo di prova nell'Fbi. Mi misero su un programma che combatteva gli abusi sui minori. Credevo che l'Agenzia fosse allineata con i miei valori.
Quando mi laureai e fui assunto, però, arrivò l'11 settembre. Cambiò tutto. E tutto divenne "antiterrorismo". Divenne anche il mio compito principale».
Le chiesero di indagare nelle comunità musulmane, di arruolare informatori, di scovare potenziali terroristi. Ma lei capì che nell'Fbi c'era razzismo e che ogni regola era svanita, dopo le Torri gemelle.
«Per anni mi sono sforzato di riconciliare quello che mi chiedevano di fare con ciò che pensavo fosse corretto fare. Mi sentivo sempre più in trappola.
Nel nome della libertà, della democrazia e della sicurezza nazionale si calpestavano sempre più linee rosse e io entravo sempre più in conflitto con me stesso. Avevo quest'idea assurda di poter cambiare le cose dall'interno e invece mi resi conto che erano loro che stavano cambiando me.
Il processo di disumanizzazione è spaventoso, nella mia ingenuità non mi resi conto dall'inizio che chiunque fosse bollato come "altro" diventava un bersaglio. Alla fine ho capito che non avevo alternative che rendere pubblico ciò che vedevo».
Lei è stato tra i primi a denunciare il Grande fratello in cui si era trasformata l'Fbi. Ma da allora non è cambiato nulla...
«Per me il punto è sempre stato questo. Nei media americani sono stato caricaturizzato come "il nero arrabbiato che si ribella per il razzismo nell'Fbi".
Un'idiozia. Non riflette la complessità di questo caso, di un'Agenzia finita fuori controllo, che abusa del suo potere e della sua autorità, che usa le leggi come clave, che decide chi è il "nemico" in modo del tutto arbitrario e senza le competenze per farlo.
Nel nome del "terrorismo" si sono fatte atrocità immani, una volta che il governo ti appiccica addosso quell'etichetta può seguirti fino in Italia o in Germania e prenderti di mira.
Che poi è quello che sta facendo Trump, quando etichetta attivisti di sinistra come "terroristi" o sudamericani come "narcoterroristi". L'etichetta "terrorista" è un modo per Trump di mantenere la propria supremazia e dominanza contro chiunque ostacoli la sua ambizione di schiacciare il mondo».
L'Fbi è fuori controllo dai tempi di Bush. Ma il punto è che questa sorveglianza senza limiti diventa uno strumento di terrore particolarmente pericoloso in un momento di palese deriva autocratica. O no?
«È esattamente il mio punto. Quando Trump fu eletto la prima volta, nel 2016, venne fuori la storia delle interferenze russe nelle elezioni.
Quel che è successo è che i Democratici si sono schierati talmente a difesa dell'Fbi – perché odiavano Trump – che hanno elevato l'ex direttore James Comey a eroe. Ma l'Fbi era parte del problema.
E la mia denuncia finì nel nulla perché la sinistra e i Democratici si schierarono come un sol uomo a difesa di un'Agenzia corrotta, fuori controllo. È anche responsabilità loro se oggi Trump continua ad abusare del suo strapotere».