PAESE CHE VAI, MAFIA CHE TROVI: IL GRANDE IMPERO DELLA YAKUZA

Pio D'Emilia per "l'Espresso" - Foto di Anton Kusters

Shinjuku è uno dei quartieri non-stop di Tokyo. Il più vivace, il più rappresentativo della metropoli più cara, più efficiente, più sicura, ma anche più corrotta del mondo. Milioni di banconote passano di mano, spesso avvolte in pudichi foulard multicolori (i famosi furoshiki) a titolo di pizzo, commissioni, tangenti mentre milioni di persone escono ed entrano, di giorno, dalle varie stazioni della metropolitana.

Di notte poi molti a Shinjuku ci restano, o ci vengono apposta, per alimentare lo spumeggiante e variopinto mercato della "salute", cioè il mondo della prostituzione, e del bakuto, l'impero del gioco e delle scommesse clandestine. Due voci importanti, non certo le uniche, nel megafatturato (tra 2 e 5 mila miliardi di dollari, a seconda delle stime e dei settori che si includono) della mafia più ricca, potente e "trasparente" del mondo: la yakuza. Un impero nell'impero. Dove tutto bolle, si agita e si assesta lontano da sguardi indiscreti e quando emerge in superficie appare immobile nella sua - apparente - armonia.

Paese che vai mafia che trovi. In Giappone, dove le cosche sono regolarmente registrate e i boss hanno un bigliettino da visita e viaggiano in treno, è facile incontrarla. Un po' meno combatterla. La yakuza in Giappone è onnipresente: dal Parlamento, dove secondo il mafiologo Kenji Ino almeno un terzo dei deputati viene eletto o ha comunque rapporti stretti con le cosche, al mondo dell'entertainment, degli appalti pubblici, del commercio e, più recentemente, dell'alta finanza. Per non parlare dei "settori" più tradizionali: estorsioni, strozzinaggio, recupero crediti, prostituzione, mondo delle scommesse legali e, ovviamente, illegali.

«La yakuza fa parte della nostra storia», sostiene Manabu Miyazaki, figlio di un boss ritiratosi a vita privata e autore di una illuminante autobiografia, "Toppamono" (Fuorilegge). «Proprio come la mafia per voi italiani», prosegue, «e infatti abbiamo gli stessi problemi».
All'ultimo piano di un edificio di Kabukicho, la zona più "vispa" di Shinjuku, c'è un ristorante cinese. Alle pareti ritratti di Mao, di Deng e dei nuovi leader, da Hu Jintao e Xi Jinping, che l'ha appena sostituito.

Ma anche di Wuer Kaixi, uno dei leader della rivolta di Tienanmen, ricercato numero uno delle autorità cinesi, oggi esiliato a Taiwan e di cui il proprietario si dichiara amico personale. In una saletta interna, protetta solo da una tendina di stoffa, un cameriere chiede a due clienti di spostarsi. Serve l'intera stanza. Una decina di persone, dal look e accento inequivocabile, entrano nel locale e occupano la stanza. Cominciano a mangiare, bere, e parlare ad alta voce.

Cosa che i giapponesi non fanno mai. E infatti sono "chairen", mafiosi cinesi "locali", nati e cresciuti in Giappone. Ma che conservano buoni contatti con la madrepatria e che ormai qui, per almeno tre secoli territorio intoccabile della yakuza, la fanno da padrone. Il tutto senza fare "rumore": qualche rissa ogni tanto, ma neanche un morto. Nel giro di una decina d'anni, hanno mutato la struttura del crimine più organizzato e ordinato del pianeta. Il proprietario del locale è uno di loro.

Si fa chiamare Li ed è nel suo locale che, 8 anni fa, è stato siglato uno storico patto tra la Sumiyoshi-kai, seconda "cosca" del Paese, pressoché egemone a Tokyo, e le chairen, prime, improvvisate, "avanguardie" cinesi del crimine. Gruppi di vandali in moto che si divertivano a far casino e spaventare commercianti e residenti. I commercianti, ma non tutti, chiamarono la yakuza per proteggerli. Ma gli altri non ne volevano sapere. A qualcuno (il proprietario del locale dove siamo ospiti) venne l'idea di tentare un accordo.

Che funzionò. Gli yakuza aggiornavano i cinesi sugli esercizi che si adeguavano e quelli invece "renitenti" al pizzo, e quelli ci andavano giù sempre più pesanti. Ma solo danneggiamenti, mai violenza sulle persone. Nel giro di un paio di anni il pizzo hanno finito per pagarlo tutti e nel quartiere tutti vivono in pace e tranquillità.

Alla "pax mafiosa" partecipano anche i coreani, padroni incontrastati dell'enorme business del pachinko, sorta di flipper verticale che vomita - e ingurgita - migliaia di piccole sfere di piombo, che in caso di rara vincita possono essere convertite in contanti (oltre 20 mila esercizi in tutto il Paese, fatturato ufficiale di 300 miliardi di dollari, quattro volte l'intero export di autovetture) e la polizia, senza la cui benevolenza per non dire complicità non potrebbe funzionare.

«Ci siamo capiti subito», spiega Li senza tanti problemi, «proprio mentre i nostri rispettivi governi si guardano in cagnesco, noi ci siamo messi d'accordo: la guerra non piace a nessuno e non fa fare quattrini. Meglio dividersi i compiti, cooperare e prosperare assieme».

Il ragionamento non fa una piega: Kabukicho ha il più alto tasso di bordelli, koroshi-bako (bische clandestine dove si spennano i ricconi sprovveduti) e spacciatori per metro quadrato al mondo. La sua popolarità, anche in tempi di crisi, resiste perché tutto è organizzato, "oliato" e sicuro. Una pax mafiosa che oltre a giapponesi, cinesi e coreani, unisce e fa prosperare anche altre e meno organizzate minoranze: israeliani, brasiliani, nigeriani, iraniani.

La pax mafiosa, che abbraccia cosche, istituzioni, alta finanza e "utilizzatori finali" è garantita, attualmente, da una "cupola" trasparente al cui centro c'è Tsukasa Shinobu, sesto oyabun (padrino) della Yamaguchi-gumi, la cosca più potente del paese, con oltre 7 mila dipendenti "fissi" e 20 mila "precari" che entrano ed escono a seconda del "mercato", uscito due anni fa dal carcere dove ha scontato sei anni per - incredibile ma vero - porto d'armi abusivo altrui.

Già, perché tra le varie leggi adottate negli anni '90 dal governo, e che hanno solo lievemente scalfito il potere della yakuza, ce n'è una che stabilisce non solo la responsabilità civile del boss di una cosca (che in Giappone sono legali: la polizia ne indica nel suo libro bianco 22 di serie A e 51 di serie B) per i danni causati dai suoi "dipendenti" (i mafiosi in Giappone sono regolarmente assunti) ma anche quella penale. Il tutto in un Paese dove non esiste il reato di associazione a delinquere e tanto meno di "stampo mafioso", le intercettazioni non sono consentite che in casi straordinari e dove non esiste un programma di immunità e protezione per eventuali "pentiti".

Se in più si aggiunge il fatto che in Giappone vige la discrezionalità dell'azione penale si capisce perché, nonostante l'immagine di efficienza (il 98 per cento dei processi penali termina con una condanna), la lotta contro il crimine organizzato è più formale che sostanziale. Nel 2012, su 22 mila arresti, solo il 67 per cento degli indiziati è stato poi rinviato a giudizio (vent'anni fa era l'88 per cento) e per reati minori: disturbo della quiete pubblica, lesioni personali, guida in stato d'ebbrezza.

Di qui la condanna di Tsukasa, che all'epoca, ammise non solo di aver acquistato due pistole (Beretta, che in Giappone sono le più richieste e sul mercato valgono oltre diecimila euro l'una) ma anche di averle date in dotazione ai suoi tirapiedi. Un vero samurai. Accolto come un eroe, all'uscita dal carcere. Ma molto umile: niente elicotteri, auto blindate, scorte vistose e violente: per tornare a casa, dal carcere, ha voluto prendere il treno, come la gente comune, salutando e inchinandosi, tra lo sconcerto delle guardie del corpo e delle autorità.

Del resto le beghe delle cosche in Giappone non creano allarme sociale. Anzi. Un meeting della "cupola" - che si riunisce ogni mese a Kobe - affronta e risolve le questioni sul tappeto con grande efficacia. Le statistiche nazionali, del resto, parlano chiaro. La mafia giapponese ha provocato, negli ultimi 10 anni, appena 32 morti. Uno solo l'anno scorso, nessuno, finora, quest'anno.

 

 

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