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IN MINORANZA NUMERICA A MOSUL, I JIHADISTI USANO SOPRATTUTTO BOMBE - NEI GIORNI SCORSI I PESHMERGA CURDI HANNO TROVATO UN ORDIGNO CON DEDICA: UNA LETTERA AVVOLTA SULLA BOMBA CON LA SCRITTA “UN GIORNO, PRIMA O POI, SAREMO MORTI, IO O TU. MA SPERO CHE SIA TU A MORIRE PER PRIMO” - L’ISIS HA ARRUOLATO MERCENARI CECENI E CINESI

Giampaolo Cadalanu per “la Repubblica”

 

la battaglia di mosulla battaglia di mosul

L’Isis è lì, fra le colonne scure che salgono nel cielo del Kurdistan, strangolando il rosso del tramonto in un abbraccio grigio e marrone. Oltre lo sbarramento di terra controllato dai militari curdi, in fondo, accanto ai roghi del petrolio, si vedono le poche luci accese di Karemlesh. «Dovrebbero essere gli uomini dello Stato islamico, ma non possiamo saperlo con certezza. Molti jihadisti sono già scappati verso Mosul, man mano che noi avanzavamo», dice il generale Bahjat Taymis, che ha comandato gli Zeravani – il corpo militare dipendente dal ministero degli Interni – a liberare questa zona del fronte, tre giorni fa, a due chilometri dal villaggio cristiano di Bartella.

 

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Nella terra di nessuno le case sopravvissute ai bombardamenti della coalizione mostrano finestre buie, le strade sono deserte. Quando il silenzio è rotto da due colpi di fucile, il generale scrolla le spalle: «Quelli dell’Isis sparano su tutto. Ma presto scapperanno». Quando la luce della prima stella riesce a farsi largo in alto nel cielo, un’esplosione molto più forte conferma che la cortina fumogena degli uomini di Abubakr al Baghdadi non basta a dissuadere i cacciabombardieri.

 

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La strada che porta a Mosul attraversa il fiume Khazer, in una distesa di terreni abbandonati e incolti. I contadini sono fuggiti due anni fa, e anche dopo le prime avanzate dei Peshmerga nella zona nessuno si azzarda a riprendere la via dei campi. La ragione la spiegano due bandierine rosse, sul bordo della carreggiata: sono attaccate alla coda di un razzo inesploso, conficcato nel terreno. Muhsin Qizilci, artificiere veterano, addestrato anche dagli italiani, guarda quello che sembra solo un vecchio barattolo di vernice e avverte: «Anche quello era una bomba improvvisata, adesso è stata neutralizzata. Si capisce facilmente».

 

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Gli uomini dell’Isis, in minoranza numerica, usano le bombe come arma prediletta. Karwan Baban, colonnello dei Peshmerga, racconta che nei giorni scorsi i suoi hanno trovato un ordigno con dedica. Era una lettera avvolta sulla bomba e rivolta all’artificiere: «Un giorno, prima o poi, saremo morti, io o tu. Ma spero che sia tu a morire per primo».

 

Ogni zona che viene abbandonata è disseminata di trappole esplosive. Nella zona di Khazer, durante la sola giornata di martedì, gli esperti ne hanno disinnescato oltre trecento. «E questo grazie anche all’addestramento della coalizione, e degli italiani», dice Taymis, che però aggiunge: «Ma abbiamo poche attrezzature, un solo metal detector. Ci servirebbe altro materiale ».

 

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E infatti qualche bomba esplode. «Abbiamo avuto tre martiri, anche un maggiore è morto mentre lavorava a un ordigno. Ma abbiamo anche trovato 48 corpi di jihadisti, l’Isis li ha lasciati lì a marcire. Oggi gli abbiamo buttato sopra un po’ di terra perché cominciavano a dare cattivo odore. E siamo riusciti a far saltare in aria sei kamikaze che avanzavano con auto imbottite di esplosivo», raccontano gli Zeravani.

 

Fra i jihadisti uccisi, qualcuno aveva “facce straniere”, l’ipotesi è che fossero ceceni. Potrebbe essere la conferma alle voci che vogliono solo i foreign fighter rimasti a Mosul per la resa dei conti finale. «Con le intercettazioni, abbiamo sentito parlare anche in cinese», sottolinea con convinzione il generale. Se confermata, sarebbe un’informazione inedita: magari fra gli integralisti c’era qualche uighuro del Xinjang che ha voluto fare la sua jihad in questo angolo del mondo. Nel villaggio liberato, i militari curdi hanno scoperto un cunicolo abbandonato dall’Isis, con cibo, letti, computer, telecamere di sorveglianza e persino una piccola biblioteca, ovviamente di soli libri religiosi.

 

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Dall’altra parte della strada, le Humvee mimetiche con la bandiera irachena sono riunite attorno a una casa, che i militari di Bagdad hanno trasformato in base avanzata. «Siamo in buoni rapporti con i soldati governativi, ci coordiniamo ma ognuno ha il suo ruolo», insiste il generale. Per l’offensiva su Mosul, le forze curde hanno aperto un canale che verrà utilizzato anche dai governativi iracheni.

 

Quegli stessi fuoristrada blindati potrebbero essere quelli che andranno fino in fondo, seguendo gli accordi: le truppe curde, le milizie paramilitari sciite e gli stessi soldati sciiti di Bagdad si fermeranno ai limiti della città, nel cuore di Mosul potranno entrare solo militari scelti fra quelli di credo sunnita e la polizia irachena.

 

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La decisione dovrebbe servire a evitare rappresaglie sui civili sunniti, ma nessuno si illude che possa bastare. Le milizie sciite non sono disposte a dimenticare, e hanno già fatto sapere che vogliono sfidare gli ordini di Bagdad. «La gente di Mosul ha scelto di stare con Daesh, ora avranno la libertà, ma dovranno pagare un prezzo», dice un ufficiale curdo. Anche il generale ammette: «Non so se basterà scegliere le truppe destinate alla città per fermare le vendette».

 

La battaglia per Mosul però ha ottenuto il risultato di far avvicinare due comunità finora lontane, i soldati sciiti e i guerrieri curdi. All’ospedale da campo degli Zeravani, pochi chilometri più indietro, il sergente Nima Barwarj si stupisce: «Certo che noi accogliamo anche i feriti governativi! Siamo qui apposta. Noi diamo assistenza in questa zona, in altri punti del fronte ci saranno medici dell’Esercito iracheno».

 

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Le stanzette dell’ospedale da campo sono vuote: i feriti curdi hanno avuto le prime cure e poi sono stati inviati all’ospedale di Erbil, con bruciature, lesioni da schegge, qualche pallottola arrivata dai cecchini. «Abbiamo anche assistito due iracheni che avevano un braccio e una gamba rotti. Ma sono già tornati a combattere», racconta il sottufficiale. Taglia corto lo specialista medico che i commilitoni chiamano Smko Italy, perché è tifoso della Juventus: «Non ci sono differenze fra curdi e iracheni. L’Isis uccide tutti e due, dunque noi dobbiamo aiutare tutti e due».

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