gue pequeno

UNA STORIA DI SOFISTICATA IGNORANZA – GUÉ PEQUENO SI RACCONTA IN UN’AUTOBIOGRAFIA E ASFALTA MILLENNIALS E COLLEGHI – “LA GENERAZIONE DI ADESSO E' FERMA SUI SOCIAL, NON CAPISCE COSA VUOL DIRE FARSI IL C*LO” – “I VERI RAPPER NON SONO DELLE MACCHIETTE DA VIDEO VIRALE SU YOUTUBE” – “SFERA HA TALENTO ANCHE SE SI ISPIRA FIN TROPPO A CERTI RAPPER AMERICANI. GHALI NON È PIÙ AUTENTICO. L’UNICO CHE FA CAPOLAVORI È…”

Jacopo G. Belviso per "Il Messaggero"

 

gue pequeno

Gué Pequeno si racconta. Un’autobiografia, anzi un autoritratto senza alcun tipo di filtro, di uno dei più grandi rapper italiani, da anni icona indiscussa delle giovani generazioni e saldamente in testa alle classifiche di vendita musicali. 

 

Un uomo che si è fatto da solo (self Made Man - come lui stesso si definisce), cresciuto non in una famiglia ricca, ma che già da bambino aveva chiare in testa le sue priorità e i gli obbiettivi da raggiungere: «che avrei spaccato col mio stile e avrei fatto i soldi».

 

Nel suo libro “Guèrriero - Storie di sofisticata ignoranza” edito da Rizzoli, Cosimo Fini, in arte Gué Pequeno, ha messo tutto se stesso: la sua storia, la sua infanzia, l’adolescenza, la maturità, la sua musica e soprattutto la sua anima. Tra periferie e suite a cinque stelle, tra poesia e slang di strada, tra droghe e donne, tra moda e vestiti: un flusso di “incoscienza potente”, sincero e senza alcun tipo di scrupolo. 

 

gue pequeno

Tra le pagine del volume l’autore non risparmia niente e nessuno. Ripercorre la sua vita e la sua carriera, ricordando le prime esperienze da rapper di strada a fianco alla sua crew, i Club Dogo, con cui ha dato il via alla cultura hip-hop in Italia.

 

gue pequeno cover

Una squadra di fratelli che definisce come «completamente eterogenea: dai figli di operai a figli di professionisti, di quartiere in quartiere, (..) abbiamo fatto di questa varietà la nostra forza». Il linguaggio del libro, che lui stesso non definisce come quello di una biografia ma piuttosto di «un flusso di pensieri», è giovanile, chiaro, semplice. 

 

Lo stesso slang che lo ha caratterizzato agli inizi della carriera, e che tutt’oggi lo differenzia dalla restante parte della scena rap italiana, trasforma il volume in una sorta di manifesto generazionale. Gué vive le contraddizioni della nostra epoca, le declina tra una rima e l’altra, critica aspramente le nuove generazioni e l’immobilismo diffuso che le determina. «Per mantenere lo stile di vita che sognavo ho lavorato duro.

 

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Da ragazzino vendevo tshirt, mixtape (…) Adesso il mio modo di essere hustler (traducibile in Italia come "trafficante", colui che si dà da fare per i soldi, ndr) è cambiato: ho una linea di abbigliamento, investimenti immobiliari, sono socio di una gioielleria e di un franchising di cannabis legale. Altro che quelli che passano le giornate su Instagram».

 

Ma è nelle ultime pagine che Guè sferra la critica più aspra ai millennials. Attraverso la scrittura, il "bravo ragazzo" prova a risvegliare le coscienze dei più giovani, troppo impegnati a costruirsi una vita virtuale parallela invece che vivere quella reale, dimenticando perciò quelle che lui definisce le priorità: farsi sentire, valere.

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«La generazione di adesso, che sta ferma sui social a guardare quanti like ha fatto, non capisce nemmeno cosa vuol dire farsi il culo: fare il contrario di tutto quello che ti dicevano, perdere il sonno, perdere l’amore, perdere le amicizie vere e giuste (…) Ho imparato che i veri gangster non stanno su Instagram, e nello stesso tempo che i veri rapper non sono delle macchiette da video virale su YouTube. (…) Il mio rap dipinge immagini ed è più cinema che un multisala. In un periodo dove tutti fanno finta sui social, nella vita reale ci sono una serie di problemi e di fatica. Devi studiare, devi alzarti la mattina (…)».

 

Non si identifica con nessuno, racconta nei suoi testi di non rappare in italiano ma di essere lui stesso il rap italiano. Spiega di essere autentico «nel bene e nel male» ed in merito al tema dell’autenticità non tralascia frecciatine ai colleghi dell’alta classifica: «Sfera ha talento anche se si ispira fin troppo, e uso un eufemismo, a certi rapper americani. 

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Ghali, che misi sotto contratto agli esordi, ha cambiato direzione troppe volte per essere veramente autentico: da gangster a mamma Africa ce ne passa. Mancano a tutti i testi, l’unico che fa capolavori è Vale Lambo. La Dark Polo Gang ha basi forti ma, e lo dice uno ossessionato dai marchi, parla solo di moda: fanno entertainment, se cerchi poesia vai da De André». Ma poesia non vuol dire però impegno. «Da noi ancora non si riesce ad andare oltre l’ossessione per le canzoni che devono passare il famoso messaggio”.

 

E continua, attaccando direttamente chi fa di tutto per curare soltanto la propria immagine pubblica a discapito della qualità musicale: «In questo momento storico in cui l’immagine è tutto, i più furbi se la inventano e se la giostrano, ma a me non me ne frega un cazzo di fare le foto con il dito in bocca alla Zoolander e accessori da donna, e anche gli artisti che ammiro non usano nemmeno i filtri per le foto, e non posterebbero mai certe cose. I filtri li uso in un altro modo».

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Se lui è il King del rap italiano è grazie anche a tutto quello che ha costruito attorno alla sua figura, attorno al personaggio Gué. Pur avendo prodotto quattro album da solista, che hanno consolidato il suo status, il Guengsta Rap dice di non essersi snaturato rimanendo comunque quello di sempre: «Sono rimasto Cosimo quando il 90 per cento dei rapper è falso.

 

Si fingono gangster o inventano un’adolescenza difficile ma se finiscono in quegli ambienti prendono schiaffi. Io non mi spaccio per malavitoso, ma ne conosco e mi rispettano». Non solo genialità nel produrre ed immensa passione nel lavoro, il Gentleman rivendica anche il fatto di aver introdotto, nel mondo musicale di riferimento, tante novità di cui oggi non si può fare a meno se si vuole ambire a scalare le classifiche.

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Nel primo capitolo ne elenca diverse, dimostrando quanto la sua originalità sia poi stata “rubata” da altri artisti rap italiani: «Tra le cose che ho fatto in anticipo ad esempio mettermi dei denti d’oro, portare la “piazza” sul palco, indossare e creare bling bling personalizzati, usare l’autotune, vestire Stone Island, Supreme, Kappa, Champion, Gucci, Vuitton, Fendi, citare tutti i marchi nelle rime, swaggare, avere un’etichetta indipendente, creare un brand di streetwear, andare nei gossip con delle fighe famose, sdoganare e istituzionalizzare lo show del rapper nei club commerciali, indossare Rolex veri, mettere questo lifestyle nelle rime, citare cibo e alcol costosi (…)».

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Un testo ricco, che svela numerosi retroscena (tutti all’altezza del personaggio) che appassionerà ancora di più i fan contribuendo ad alimentare ancora quell'invidia tramutata in odio dei già conclamati haters (che non sono pochi) a cui Gué ha dedicato ampio spazio tra le pagine del libro: «Non ho nessuno che mi scrive il copy dei post, e se mi rompi il cazzo su Instagram ti rispondo. Ormai lo sanno tutti. Non mi interessa essere un opinionista, perché non ho niente da opinare. Non faccio il modello perché non avrò mai la tartaruga. Però col rap ti mando a casa». 

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