MA CHE STRESS LE UNIVERSITÀ IN GRAN BRETAGNA - TROPPE PRESSIONI PER EMERGERE: IL 20% DEGLI STUDENTI SOFFRE DI PROBLEMI PSICOLOGICI - A CAMBRIDGE OGNI ANNO TRA 50 E 60 RAGAZZI CERCANO DI TOGLIERSI LA VITA

1. MAL DI CAMBRIDGE

Enrico Franceschini per “la Repubblica”

 

PER Morwenna Jones entrare a Cambridge è stato il coronamento di un sogno. Ci si era preparata per anni, costruendo con metodo il curriculum necessario: ottimi voti a scuola, brillanti risultati nello sport, un ruolo di leadership in classe, nelle associazioni studentesche, nel volontariato.

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Si sentiva unica, speciale, forse eccezionale, la mattina in cui aveva preso possesso della sua cameretta nel college della migliore università del Regno Unito, la seconda migliore del mondo secondo il ranking internazionale. Ma poi ha scoperto che, a Cambridge, erano tutti così: unici, speciali, eccezionalmente preparati e determinati ad avere successo.

 

E ben presto il sogno si è trasformato in incubo. «Mi ero sempre complimentata con me stessa per essere capace di studiare otto ore di fila o leggere un libro di 800 pagine in un giorno», racconta in un articolo sulle pagine del Guardian di Londra. «Di colpo, questo non bastava più. E la pressione a primeggiare mi ha distrutto». Ha cominciato ad avere disturbi alimentari, oscillando tra bulimia e anoressia. Qualche voto non all’altezza delle aspettative l’ha gettata nella disperazione, quindi in una cupa depressione. Quando i genitori sono tornati a riprenderla, non usciva dalla sua stanza da due settimane.

 

Quello di Morwenna non è un caso isolato. Secondo statistiche della National Union Students, in Gran Bretagna il 20 per cento degli studenti universitari soffrono di problemi psicologici o mentali, in gran parte provocati dallo stress, dalla pressione a eccellere, a fare parte dell’elite che può aspirare a ottenere un giorno i migliori posti di lavoro e i più alti salari. Uno studente su dieci tenta addirittura il suicidio.

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A Cambridge non è un segreto che ogni anno tra 50 e 60 ragazzi cercano di togliersi la vita. Qualcuno ci riesce, come Toby Thorn, impiccatosi dietro l’aula della sua facoltà. Dal 2007, rivela l’Office for National Statistics, la percentuale dei suicidi fra gli studenti delle università britanniche è aumentata di un impressionante 50 per cento (da 75 a 112). Il Royal College of Psychiatrists conferma che un accresciuto numero di loro cerca sostegno terapeutico. Talvolta provano ad aiutarsi da soli, come segnala la nascita di Students Against Depression, un’organizzazione autogestita dagli studenti.

 

In Inghilterra gli esperti paragonano il fenomeno a un’epidemia. Non è un caso che sia esplosa in un paese che ospita quattro delle sei migliori università del pianeta, due delle quali, Oxford e Cambridge, indicate con un acronimo, Oxbridge, come una cosa sola, simbolo del trionfo del pensiero, dello studio, del modo giusto per maturare e affermarsi. Ma il “mal di Cambridge” non riguarda solo Oxbridge, né soltanto le altre università britanniche più prestigiose.

 

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Praticamente lo stesso problema è emerso negli Stati Uniti, tra i college dell’Ivy League: il 6 per cento degli studenti americani considerano di togliersi la vita, secondo uno studio pubblicato dal Daily Beast, che ha elaborato la classifica delle “50 università più stressanti” degli Usa (Columbia, Stanford e Harvard, ovvero le migliori, sono in testa). Alla Cornell University, dopo sei suicidi in un anno, hanno montato reti di recinzioni sui ponti per evitare che gli studenti si buttassero giù.

 

Un malessere analogo circola pure in università meno elitarie, nel Regno Unito come nel resto dell’Occidente. Le cause sono ovunque le stesse. Il tempo felice in cui tutti o quasi potevano essere ammessi all’università, una laurea costava poco e dopo gli studi garantiva un impiego, solitamente abbastanza buono da permettere uno standard di vita migliore della generazione precedente, è finito.

 

Entrare all’università ora è difficile e complicato, tanto più quanto è buona la reputazione dell’università. La laurea costa cara, in alcuni paesi carissima: a Londra ci vogliono 9 mila sterline l’anno (11 mila euro), quando ne bastavano 3 mila cinque anni or sono, mille un decennio fa.

 

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E la ricerca di un lavoro, non parliamo di quelli buoni e ben remunerati, è diventata un’impresa in tempi di crisi economica, alta disoccupazione, incertezza sul futuro. Per questo gli anni dell’università, che dovrebbero costituire un periodo spensierato e meraviglioso da ricordare con nostalgia per tutta la vita, diventano un percorso di guerra, da cui si rischia di uscire carichi di debiti, senza voti sufficientemente validi, umiliati e sconfitti rispetto alle proprie ambizioni.

 

«L’università diventa una gara in cui bisogna sempre arrivare primi», spiega la psicologa Adrienne Key. «E’ una cultura del perfezionismo che provoca seri danni ai più giovani. Demolisce poco per volta la loro autostima, perché è impossibile arrivare sempre primi. L’ambizione, se moderata, ha effetti positivi. Ma se è incontrollata ha effetti devastanti, ti divora come una malattia».

 

Nel mondo anglosassone è una malattia che inizia precocemente. Per entrare nelle migliori università bisogna avere fatto le migliori scuole superiori, per entrare nelle quali sono necessarie le migliori medie inferiori, per entrare nelle quali servono le migliori elementari, e in qualche caso perfino all’asilo si lotta già per affermarsi e distinguersi.

 

Gli ultimi due anni di liceo, poi, sono un campo minato: occorrono pagelle senza macchia, sfilze di A (l’equivalente del 10) o meglio ancora di A+, e neanche questi bastano per approdare a Oxbridge: ed ecco allora riunioni fra insegnanti e familiari, suggerimenti ad hoc, «il ragazzo dovrebbe occuparsi di beneficenza, presiedere un club, diventare capitano della squadra di rugby».

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Le Tiger Mom, le mamme-tigre, etichetta del libro che ha fatto tanto discutere qualche anno fa negli Stati Uniti, spronano i figli a dare il massimo, senza la minima distrazione. E qualcuno ce la fa. Arriva in fondo alla gara, supera tutti gli ostacoli, entra a Cambridge. Come Matt Perkins, iscritto al Churchill College: «Sono cresciuto così. Per me c’era la perfezione o niente. Ero ossessionato dal perfezionismo ». Anche lui, adesso, è in un consultorio per studenti depressi.

 

Qualcuno, tuttavia, prova a dire basta. Alla Oxford High School, liceo femminile a due passi dalla rinomata università omonima, la preside Judith Carslile ha lanciato una campagna battezzata “The death of Miss Perfect”, la morte di Miss Perfettina. “La vita vera non è perfetta”, dice la docente alle sue ambiziose allieve. «Anche le persone di maggiore successo commettono errori, vivono delusioni, incontrano fallimenti. Non fare tutto alla perfezione è ammissibile. E’ okay sbagliare».

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La scuola ha un nuovo motto: Nobody’s perfect, nessuno è perfetto. Su una panchina affacciata al Cam, il fiume che attraversa Cambridge, Morwenna Jones sarebbe pronta a sottoscriverlo. «Ho passato il pomeriggio a leggere un romanzo in un caffè, senza fretta, sorseggiando un tè. E’ il primo libro che godo a leggere da tanto tempo. Non sono perfetta e riesco finalmente ad accettarlo. Mi sento guarita». Non prenderà una laurea nei gotici edifici alle sue spalle da cui sono usciti legioni di premi Nobel, scienziati, artisti, leader politici, capitani d’industria. Ma non soffre più del mal di Cambridge.

 

 

2. I NUOVI FUGGITIVI DALLA PALUDE ITALIANA

Caterina Soffici per “Il Fatto Quotidiano

  

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Londra continua a essere la meta più gettonata. In un anno gli italiani arrivati nella capitale britannica sono stati il 71,5 per cento in più. Ma gli ultimi dati diffusi ieri dal “Rapporto Italiani nel Mondo” della Fondazione Migrantes-Cei dicono che la fuga degli italiani verso l’estero continua ad aumentare in assoluto, non solo verso la Gran Bretagna, che si conferma comunque meta preferita, seguita a ruota da Germania, Svizzera e Francia.

  

In un anno, il 2013 rispetto al 2012, il numero dei connazionali che sono espatriati è cresciuto del 16,1%. Sono percentuali gigantesche. E chi se ne va non è un gufo e neanche un rosicone e neppure in disfattista. Se ne va per cercare un futuro che in patria non si intravede e la percentuale cresce in modo inversamente proporzionale rispetto a quanto aumenta la disoccupazione in patria, cala il Pil e diminuiscono le aspettative: nel 2013 se ne sono andati in 94.126 contro i 78.941 del 2012.

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Ovviamente stiamo parlando solo delle cifre ufficiali, cioè di quelle persone che si registrano all’Aire (Anagrafe degli Italiani residenti all’Estero) e quindi entrano nelle statistiche. Secondo le stime dei consolati e delle ambasciate all’estero il numero va come minimo triplicato, se non addirittura quadruplicato, perché mediamente solo uno su quattro si registra. Ma c’è un’altra notizia sorprendente: la regione che ha registrato nel 2013 il maggior numero di partenze è la ricca e florida Lombardia (16.418 partenze ufficialmente registrate).

  

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Li vogliamo chiamare nuovi emigranti? Sono piuttosto dei fuggitivi 2.0, che non han niente a che vedere con la vecchia categoria del cervelli in fuga e neppure con quella dei vecchi immigrati in stile Pane e cioccolato.

  

L’identikit del fuggitivo 2.0 è questo: uomo (56,3% dei casi), non sposato (60%), di età compresa tra i 18 e i 34 anni (in questa fascia di età si colloca il 36,2 per cento degli espatriati). Segue a ruota la classe dei 35-49enni (26,8 per cento), “a riprova – si legge nella relazione - di quanto evidentemente la recessione economica e la disoccupazione siano le effettive cause che spingono a partire”. Londra, con il suo 71,5 % in più è un osservatorio privilegiato. Al Consolato è da un anno stato attivato addirittura uno sportello che si chiama “Primo Approdo”, per dare informazioni e assistenza a chi è appena arrivato.

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Spesso sono proprio i più giovani e meno preparati a diventare le vittime privilegiate di truffe, false agenzie che promettono soldi in cambio di lavoro, episodi di vero e proprio caporalato, affitti esorbitanti per stamberghe umide e puzzolenti. Perché Londra è una grande metropoli, ma è anche cattiva e pericolosa.

  

 

Le cifre dell’esodo sono impressionanti ma i numeri non bastano per raccontare una realtà fatta di nomi e facce e vite che si interrompono in patria e si devono faticosamente ricostruire all’estero. Perché ci si può anche raccontare la bella storia che siamo tutti cittadini del mondo, ma i giovani e le famiglie che arrivano a Londra sono in fuga, non in gita nel mondo.

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