1. QUELLA IMMANE TRAGEDIA DEL VAJONT CHE CINQUANT’ANNI FA COPRÌ DI FANGO PURE I GIORNALONI DEI POTERI MARCI DELL’EPOCA, ANCORA OGGI NON È STATA RIMOSSA IN REDAZIONE 2. NEL CINQUANTENARIO DEL RICORDO, LA GRANDE STAMPA HA PREFERITO AUTOCELEBRARSI INVECE DI CERCARE DI RISTABILIRE LA PROPRIA REPUTAZIONE (INFANGATA), PRIMA, DURANTE E DOPO LA SCOMPARSA D’INTERI PAESI E DI DUEMILA ANIME INNOCENTI 3. TUTTE LE GRANDI FIRME, DA BOCCA A MONTANELLI FINO A BUZZATI, A PARLARE DI “FATALITÀ” E DI “NATURA MALIGNA” PER NON METTERE SOTTO ACCUSA LE RESPONSABILITA’ LAMPANTI DELLA POTENTE SADE, SOCIETA’ COSTRUTTRICE SPERICOLATA DELLA DIGA MALEDETTA 4. FUORI DAL CORO (DELLA RETICENZA E DELL’OMERTÀ) DUE GRANDI CRONISTI: TINA MERLIN (”UNITÀ”) E SANDRO VIOLA (”ESPRESSO”): “LA NATURA C’ENTRA SINO A UN CERTO PUNTO”

DAGOREPORT

Le vampe della vergogna avrebbero dovuto illuminare i giornali dei Poteri marci almeno nel giorno del ricordo lungo della tragedia del Vajont.
Nulla, invece.
Nemmeno una riga o, che so? una lacrimuccia salutare di coccodrillo.

Cinquant'anni dopo quell'immane catastrofe (9 ottobre 1963), sia pure con qualche rara accezione sul web, in libreria e in teatro con Marco Paolini, la grande stampa ha preferito autocelebrarsi invece di cercare di ristabilire la propria reputazione (infangata), prima, durante e dopo la scomparsa d'interi paesi e di duemila anime innocenti.

Una sciagura annunciata che le grandi firme del tempo tentarono di far passare come figlia della natura matrigna; non imputabile - giammai! - agli avidi e cinici costruttori della diga.
La potentissima Sade fondata dal conte Giuseppe Volpi di Misurata e presieduta dal 1953 fino al 1964 dall'ex ministro fascista della comunicazione, Vittorio Cini. E in seguito passata all'Enel nazionalizzata.

"In tempi atomici si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è buona, non è cattiva, ma indifferente. E ci vogliono queste sciagure per capirlo! Non uno di noi moscerini vivo se la natura si decidesse a muoverci guerra», scriveva su "il Giorno" di Mattei Giorgio Bocca pochi giorno dopo quel cataclisma (11 ottobre 1963).

Già, per il "partigiano" Giorgio "non c'era niente da fare, non ci sono rimorsi, non ci sono colpevoli. Ci siamo solo noi, i moscerini, che vogliamo (...) dichiarare guerra alla natura".
Sul Corrierone dei Crespi, che ha ripubblicato l'articolo l'altro giorno, anche lo scrittore bellunese Dino Buzzati descrisse - da par suo -, quell'evento doloroso e imprevedibile che aveva ferito in profondità la sua terra.

"Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d'acqua e l'acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi", racconta l'autore del "Deserto dei tartari".
Tutto qua, un sasso in un bicchiere d'acqua...
O un moscerino che vuole sfidare la natura...

"Qui vengono gli sciacalli che il partito comunista ha sguinzagliato, dei mestatori, dei fomentatori di odio. E sono costoro che additiamo al disgusto, all'abominio, e al disprezzo", taglia corto su "La Domenica del Corriere" il solito Indro Montanelli. Il cilindro tanto caro a Marco Travaglio, che sul suo "il Fatto", a ragione, stigmatizza invece sui "pianti e le commemorazioni da pasticceria" sulla catastrofe del Vajont.
Tutto qua, per Montanelli...

Gli sciacalli non sono i responsabili della Sade del suo amicone-volpe Vittorio Cini, bensì chi - come l'allora giovane cronista dell'"Unità", Tina Merlin -, si dannava l'anima per denunciare e prevedere gli effetti devastati che avrebbe provocato la diga progettata dalla Sade a dispetto dell'opinione dei suo stessi tecnici. E a segnalare al tempo stesse le gravi responsabilità politiche di Roma e delle autorità dei lavori pubblici che, allegramente (o peggio), avevano dato il via libera all'opera maledetta della Sade.

Delle collusioni politiche tra i padroni elettrici della Sade e i partiti di governo, non c'è traccia nei resoconti dei giornali impegnati a rimuovere in fretta, con l'odioso ritornello della "fatalità", l'immane tragedia del Vajont.
C'è una foto, tuttavia, che resta emblematica su come Politica&Giornali coprì per tantissimi anni lo scandalo Vajont.

L'immagine ritrae il presidente del Consiglio in carica, Giovanni Leone, che accompagnato dal ministro Mariano Rumor visita le zone stravolte dalla diga. E' proprio lui, lo stesso futuro capo dello Stato che dopo aver pianto sulle rovine di Longarone di lì a poco indosserà la toga d'avvocato per andare a difendere nell'aula del tribunale dell'Aquila proprio gli eccellenti imputati della Sade.

Già, moscerini, sciacalli e camaleonti a completare lo zoo di una tragedia annunciata...
E' appena uscito un libro di Adriana Lotto sulla battagliera giornalista che non ha mai vinto nessun Premiolino, "Quella del Vajont" (Cierre edizioni) che già nel 1959, cioè quattro anni prima della tragedia osservava "non si può sapere se il cedimento sarà lento o avverrà con un terribile schianto. In questo ultimo caso non si possono prevedere le conseguenze".
A ciascuno, allora, la sua citazione al merito (o al deploro).

Al giovane e bravo inviato de "la Stampa", Giampaolo Pansa dall'incipit fulminante: "Scrivo da un paese che non esiste più", al trentenne Sandro Viola, uno dei pochi a cantare sull'Espresso fuori dal coro (della reticenza e dell'omertà) dei giornaloni dei Poteri marci.
"Com'è successa la tragedia? Dunque, due giorni fa tutti erano sicuri che si fosse trattato di una catastrofe assolutamente imprevedibile. Autorità, tecnici, uffici stampa erano stati concordi: Nessun uomo, nessun mezzo tecnico erano in grado di prevedere l'accaduto (...) poi s'è visto che le cose non stavano esattamente così, che la natura c'entra sino a un certo punto", scrive l'inviato dell'"Espresso" (20 ottobre 1963).

E se a distanza di cinquant'anni si tenta ancora di rimuovere a mezzo stampa la tragedia del Vajont con articolesse Stella(ri) sul "Corriere della Sera" rivela soltanto che, imperdonabilmente, certo giornalismo non vuole liberarsi delle sue vergogne.

 

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