AL LUPO, AL LUPO (DI WALL STREET) - PARLA IL VERO BELFORT: ‘SCORSESE E DICAPRIO HANNO FATTO UN LAVORO FANTASTICO. ERA PROPRIO COSÌ. A WALL STREET L’80% LAVORA SOLO GRAZIE ALLA COCA - A ME SONO SEMPRE PIACIUTE LE BELLE DONNE E NE VOLEVO SEMPRE DI PIÙ. UN PO’ COME IL VOSTRO BERLUSCONI!”

Enrico Deaglio per "il Venerdì la Repubblica"

Il lupo ha 51 anni, non tocca alcol e droghe da 17 e vive in una normale villetta sulla spiaggia di Hermosa Beach, in mezzo a una moltitudine di joggers e ciclisti. È tarchiato, muscoloso («gioco molto a tennis»), socievole e parla veloce con la famosa cadenza popolare newyorkese.

Volete sapere se assomiglia a Leonardo DiCaprio, il suo alter ego nel film The Wolf of Wall Street? Abbastanza; certo DiCaprio è più bello; ma tante cose sono simili - dai capelli allo sguardo e soprattutto la parlata - a Jordan Belfort, il vero protagonista della storia. «Con Leo abbiamo passato centinaia di ore... Adesso lui mi conosce meglio di me!».

Il film, diretto da Martin Scorsese, è oggi in cima agli incassi di tutto il mondo e Leonardo DiCaprio è il più serio candidato all'Oscar come migliore attore. La storia è questa: ragazzo sveglio alle prime armi a Wall Street a metà anni Ottanta fonda una società di brokeraggio, assume mille impiegati che piazzano via telefono migliaia di titoli buoni e meno buoni a clienti ignari.

Quando il titolo meno buono (su cui hanno loro stessi investito) raggiunge un certo livello, vendono le loro quote e lasciano a secco gli investitori. Cosa fare con i milioni guadagnati? Il ragazzo, Belfort, compra case, Ferrari, elicotteri, yacht, stipendia un esercito di prostitute, vive di cocaina e una decina di altre droghe («quello che prendevo io da solo bastava per far sballare tutto il Guatemala»), ricicla in Svizzera, viene beccato dall'Fbi, decide di collaborare, si disintossica, si fa due anni di prigione, accetta di restituire (con calma) 110 milioni alle vittime dei raggiri, e scrive le sue memorie, appunto Il lupo di Wall Street.

Il libro esce nel 2007 (in Italia ora da Rizzoli) ed è un piccolo successo letterario (il seguito ideale di Il falò delle vanità, di Tom Wolfe, del 1987, il primo romanzo che fece conoscere il mondo di Wall Street). Martin Scorsese compra subito i diritti. Il suo film è uno shock: sesso, soldi e coca come non si erano mai visti al cinema. Per intenderci, nell'ufficio di Belfort - quando si festeggia un obiettivo raggiunto - il pompino è la norma e la coca gli impiegati la sniffano dalle tette delle prostitute, il capo invece la sniffa dall'ano.

Un'impiegata accetta di farsi rasare i capelli a zero in pubblico, in cambio di diecimila dollari per pagarsi il silicone; due nani vengono affittati (un'agenzia li fornisce con tanto di assicurazione) per essere lanciati contro un bersaglio in un party. Nessuno è restato indifferente al film di Scorsese. Le accuse: è sessista, machista, volgare oltre ogni limite, ma soprattutto presenta questo essere disprezzabile come un eroe, un modello. Gli entusiasti: è pura arte, come era Goodfellas, come era Tony Soprano. Con la morale non si fa il cinema, con la realtà sì. Scorsese è il Balzac del ventunesimo secolo.

Ed eccoci qui, a parlare con la causa di tutto ciò. Il vecchio lupo, seduto sul divano, con le gigantografie dei figli alle pareti e acqua, solo acqua nel frigorifero. L'uomo che ha capito i suoi errori e gettato alle ortiche il mondo corrotto.

Era davvero così, come nel film?
«Sì, Scorsese e DiCaprio hanno fatto un lavoro fantastico. Era proprio così. A Wall Street l'80 per cento lavora solo grazie alla coca. Tutti vogliono la ricchezza. A me sono sempre piaciute le belle donne e ne volevo sempre di più. Un po' come il vostro Berlusconi! A proposito: l'Italia la adoro. Quando abbiamo fatto naufragio a Porto Cervo (Belfort, strafatto, impose al suo comandante di navigare in tempesta e così distrusse lo yacht che era appartenuto a Coco Chanel: 78 metri, ingrandito per ospitare l'elicottero), la vostra guardia costiera è stata efficientissima. Mi ricordo delle belle feste, in Italia. Una in un grande castello, mi dissero che uno della famiglia era il sindaco di Milano. Moratti? Giusto! Moratti».

Partiamo dall'inizio?
«Ok. Famiglia povera, ma colta, prima nel Bronx, poi a Brooklyn. Tanti libri in casa, a cena mia madre mi diceva "Studia, diventerai un grande medico che guarirà il cancro". Io invece volevo diventare ricco. Vedevo la ricchezza, appena dietro l'angolo, e la volevo anch'io. Andavo bene a scuola, ma scoprii che sapevo vendere.

L'estate vendevo gelati sulla spiaggia di Coney Island, facevo 500 dollari al giorno. Misi sotto di me cinquanta ragazzi, vendevano bigiotteria, che tenevano inanellata alle braccia. E poi bagel. Gioielli, bagel e gelati. Con quei soldi sono andato all'università, sono laureato in biochimica. Poi mi sono iscritto a odontoiatria. Alla prima lezione, il prof. disse: "Devo avvertirvi che i tempi d'oro dei dentisti sono finiti". Lasciai immediatamente. Venni assunto alla LT Rothschild a Wall Street, il mio ruolo era quello di connector. Ovvero, io dovevo stare al telefono tutto il giorno e riuscire a portare il cliente (non la segretaria) alla cornetta. A quel punto dicevo: "Le passo il mio capo".

E quello proponeva l'investimento e stringeva l'accordo. Il mio capo tirava cocaina in pubblico, portava scarpe di coccodrillo, aveva un Rolex d'oro massiccio al polso e guadagnava due milioni di dollari l'anno, tra bonus e commissioni. Fu una grande scuola di vita. Finì tutto con il lunedi nero del 1987. Ma in realtà fu lì che cominciò la mia fortuna».

Perché?
«Perché io ho un talento di natura. Io so vendere. Conosco la psicologia delle persone, so come vincere la loro paura a comprare. Fondai la mia compagnia - la famosa Stratton Oakmont e non ci chiamai i professorini, ma i ragazzi della ghenga della mia adolescenza. Come me, figli del popolo, nessuno con una laurea. Volevamo diventare ricchi. Che male c'è in questo?

Oggi - lo so benissimo - la gente di Wall Street è la più disprezzata del mondo. Ma non è perché guadagnano tanto, perché hanno tutti quei bonus e benefit... No, no. Sono odiati perché hanno fatto perdere soldi ai loro clienti. Se li fai guadagnare, non ti odiano, puoi starne sicuro. Io ho fatto guadagnare tanti; purtroppo, alla fine ho fatto perdere un bel po' di gente, ho dovuto lasciare la presidenza della compagnia. Ma la Stratton è stata niente rispetto ai grandi colossi, alla truffa dei subprime, a Lehman Brothers, a Bernie Madoff.

Ah, se penso che quando arrestarono me, lui andò in televisione a dire che ero un delinquente! Guardiamoci bene negli occhi: se io ti vendo un titolo e ti prometto il 25 per cento di guadagno, anche tu sai che l'affare è rischioso. O sbaglio? E io avevo una clientela popolare, non avevo i ricconi. Nel film, Leo parla al microfono, come facevo io, e grida: "Adesso gli vendiamo i titoli buoni, gli vendiamo la Ibm, e quando li abbiamo presi, gli vendiamo la merda!". Ecco, questo io non l'ho mai detto, questa è una cosa romanzata. Anzi, noi mandavamo lettere ai clienti in cui li avvertivamo che c'era un rischio».

Andiamo, signor Belfort. Voi avete quotato in borsa una sconosciuta ditta di scarpe di moda, l'avete fatta comprare a tutti i vostri clienti, e in tre minuti - dico tre minuti - avete guadagnato 28 milioni di dollari, poi avete venduto le vostre quote, il titolo e crollato e avete fregato i vostri clienti. È così?
«Sarebbe un po' più complessa, ma diciamo che andò così. Lo ammetto. Guardi, sono io il primo a dire che è tutto il sistema che non funziona. Il denaro, l'arricchimento, l'avidità hanno troppa importanza. Io sono il primo ad esserci cascato. È tutto troppo veloce, troppo insensato.

Devono cambiare le regole, non è giusto che un broker ottenga bonus milionari al primo anno, perché questo lo spinge a fare operazioni criminali di cui poi non pagherà il prezzo. Ha fatto bene Goldman Sachs a diluire i bonus nell'arco di cinque anni. È giusto. Ma resto dell'idea che vendere un buon prodotto - e deve essere buono - è un buon sistema per guadagnarsi da vivere».

Signor Belfort, lei è un pentito?
«Sono un redento. La prigione mi ha fatto bene. So che sono stato stupido, ho dato troppo peso al denaro. Guardi che, anche in mezzo a tutto quel lusso, io non ero felice. Volevo le ragazze più belle, le macchine più belle, ma non ero appagato. Sono più appagato adesso. Insegno tecniche di vendita. Aggiungo dei valori alle persone, è una cosa buona. Sono più appagato perché riesco a realizzare qualcosa, capisce?

Fare, trasformare. Mi piacciono quelle persone, come a Google, alla Apple, che fanno dei prodotti belli e buoni e utili per l'umanità e, se poi viene il profitto, benvenuto. Invece, io questi di Occupy Wall Street proprio non li capisco. Per me sono degli stupidi. Piantano delle tende e chiedono lavoro. Ma andate a lavorare, dico io! L'America è in grado di dare lavoro a tutti, guardi il mio caso. E l'aspirazione alla ricchezza non solo è legittima, è giusta. Io, lo ammetto, ho esagerato. Ho commesso un sacco di sbagli. Per esempio, quell'idea di portare i soldi in Svizzera. Sono stato ingenuo».

Signor Belfort, lei si considera un traditore? Andò proprio così come nel film, che la Fbi le mise il microfono nascosto per potere catturare tutti?
«Sì, andò proprio così. La Fbi minacciò di arrestare mia moglie, che non c'entrava niente. Per salvare lei accettai il microfono, è vero. Ma è anche vero che passai al mio socio Danny un bigliettino con su scritto: "Non parlare, ho il microfono". Ed è anche vero che poi fu proprio Danny quello che parlò e patteggiò.

Ed è anche vero che io ho restituito quello che potevo (la giustizia gli chiede 110 milioni), ma il mio socio Danny (a lui ne chiedono 200) non ha restituito niente, ha una società che fornisce tutti gli ospedali della Florida, una casa da 6 milioni di dollari a Miami. Buon per lui. E buono anche per tutti gli altri della Stratton Oakmont, che se la sono cavata bene. Ma, davvero, non rifarei niente di tutto ciò. Ho capito che ho sbagliato. Oh, il denaro di per sé è una cosa così orribile!».

Siamo stati a parlare per un'ora. La casa sulla spiaggia era invasa dalla nebbia. Jordan Belfort, se era lupo, voleva farmi sapere che adesso era un lupo buono. Nuovi valori, spiritualità, incipit vita nova. Il lupo che ha incontrato San Francesco.

Ma ci tenne a dire che quello che la sua Stratton Oakmont aveva fatto non era niente rispetto a quello che avevano fatto i «veri lupi» di Wall Street. Lui era uno del popolo, i suoi impiegati erano proletari affamati. E i suoi clienti, erano peggio di loro. Non era una storia come quella di Tom Wolfe, quello Sherman McCoy del Falò delle vanità. «Quello era un signorino, io ero un proletario». Ragazzi, per fortuna Jordan non aveva un affare da propormi. Ci sarei cascato.

 

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