TI VOGLIO BENE, CARMELO - BUTTAFUOCO: “SE TORNASSE IN VITA, RINNEGHEREBBE LA PROVOCAZIONE, FINITA NELLE MANI DI UN CELENTANO O DI CATTELAN - SE TORNASSE IN VITA, ANCHE DA SPETTATORE, FAREBBE SGATTAIOLARE NELLA BUCA DELL'AFASIA PERFINO UN BENIGNI - SE TORNASSE IN VITA, TROVEREBBE ADATTA AL PROPRIO OBLIO LA CERIMONIOSITÀ FORMALE DEL SEGNALE ORARIO O LA TELEVENDITA DEGLI ADESIVI PER DENTIERA, NON CERTO CRESIMARSI COL ‘’TEMPO CHE FA’’, CON FABIO FAZIO”….

Pietrangelo Buttafuoco per "La Lettera - Corriere della Sera"

Se tornasse in vita rinnegherebbe la provocazione, finita nelle mani di un Celentano o di Cattelan. E in questa acclamata estetica di dita nel naso, se tornasse da noi - Carmelo Bene, il genio, morto dieci anni fa - farebbe del capolavoro di sé un'assenza silenziosa e discreta. Indosserebbe giacca e cravatta al modo di Ernesto Calindri, e, anziché scolarsi bocce intere di Veuve Clicquot in compagnia di Pierre Klossowski, sorseggerebbe appena un goccio di Cynar, fosse anche per digerire la lattuga. O le battute di Elio e le Storie Tese.

Se tornasse in vita, lui che fu non-vita - lui che fu un attore per diventare un classico, guerriero-rumorista preso per pazzo da tutti - sarebbe impeccabile con gli anacoluti della sua scrittura scenica. L'evento, adesso, è la narrazione pedagogica o, peggio che mai, civile, come quella di Marco Paolini o di Ascanio Celestini; e Bene, tornando in vita, farebbe della propria poesia (perché fu anche poeta) un ornato di cristallo, non certo quei giornali-parlati o, peggio che mai, cine-giornali.

E siccome il vero scandalo della biografia di Carmelo Bene è il suo talento, l'arte sua perfetta, se tornasse in vita lui, che è il termine di paragone - anche da spettatore, anche silente - farebbe sgattaiolare nella buca dell'afasia perfino un Benigni. Ci vuole altro, infatti, che cavare il naso a Pinocchio e latrare su Dante.

E tutta quella coprolalia del corpo sciolto, tutta la cacca nel suonar del «sì» toscano, serve a Benigni - straordinario professionista dell'italianitudine - a tenere mansueto il pubblico di Rai1, non certo a fare, finalmente, pipì dal palcoscenico. Carmelo Bene, l'ultimo dei maledetti, si sbottonò davvero: irrorò i critici e li battezzò «penne intinte nei buchi emorroidali» (erano gli stessi che oggi umettano di bacetti le terga al pensiero unico del birignao).

E se tornasse in vita, Carmelo Bene, che fu ragazzo di paese formatosi al liceo, troverebbe adatta al proprio oblio la cerimoniosità formale del Segnale Orario o la televendita degli adesivi per dentiera, non certo cresimarsi col Tempo che fa, con Fabio Fazio.

Ci vuole ben altro per diventare (ed essere stati) Bene. Oggi non c'è Bene, ed è un bene per tutti non averlo tra i piedi. Tutti i nani si mostrano giganti in forza dell'ombra, e nel pozzo del maledettismo - viva sorgente di ogni genio - oggi si pescano i Vasco Rossi e, peggio che mai, i Morgan. Se tornasse in vita, Bene - che fu gioco e scherzo al contempo, tragedia e crescendo rossiniano - farebbe coppia con Claudio Bisio, però recitando Daniel Pennac, non Stefano Benni.

Se tornasse in vita saprebbe come duettare con Fiorello, come già fece con Corrado, a «Domenica in» perché se tornasse starebbe in famiglia, con l'albero di Natale, e metterebbe le pattine e mai starebbe scalzo come Folco Terzani, già eroe delle «Invasioni barbariche», documentarista cui poté il ridicolo più che il pathos. E il guaio vero di questi dieci anni senza Carmelo Bene - l'unico pezzo d'Italia all'estero - è che la fantasia e la sete di saggezza siano tutte risolte nella stravaganza cenciosa degli ottimati foderati con le t-shirt di Emergency.

Tornando in vita, lui che «riempiva gli stadi, ora che si svuotano i teatri», per dirla con Giancarlo Dotto (che di Bene fu biografo e compagno d'arte, oggi autore di Elogio di Carmelo Bene, Pironti editore), se ne starebbe in claustrale estasi di ogni Rosa Mistica. E figurarsi quanto potrebbe restare di «dibattito» se in Italia, oggi - oggi che non c'è Bene - su un modesto allestimento come Sul concetto di volto nel figlio di Dio vi piove l'acqua benedetta, come se in quel palcoscenico ci fosse davvero eresia e non, invece, il «dove sei?» del ciripiripì laicista.

Non c'è Bene, che sosteneva «laico è laido». E non c'è, infatti, paragone se oggi, nel fuori scena sono i ragli a-teologici a sovrastare l'insignificanza del peccato, neppure le bestemmie. Per ogni Castellucci a uso di cristianucci c'è - diocenescampi - un Vito Mancuso di complemento. Non c'è Bene e, appunto, mancano le «Sovrapposizioni» di Gilles Deleuze. Non c'è Bene ed è venuta meno la grandezza. È venuto meno quel complicato minimo d'amore che è il degenere.

Se tornasse in vita se ne starebbe a far viaggi all'estero, e non solo perché ieri c'era la Francia a inginocchiarsi di fronte al tuono della sua voce, la Voce di Narciso, ma per andar via dall'Italietta, fetta di scarto di un provincialismo tutto a modino, l'Italia che non è più villaggio di prefetture e cattedrali, dove si sapeva piangere dal ridere e far fioretti a San Tommaso.

E poi perdersi. Come capitava a lui, da bambino, mano nella mano con la sorella Maria Luisa, quando si perdevano per essere ritrovati fermi a contemplare il fuoco di un fornaio. Come se quella vampa fosse un farfugliare d'agonia cui prendere in prestito il rosso vivo, e far belle le gote.

Se Carmelo Bene tornasse in vita, si ritirerebbe in Russia, dove già da ragazzo vi macinava tournée, e fu proprio a causa di quei suoi successi che non poté presenziare - lui, figlio così devoto - alla festa delle nozze d'argento dei genitori. Comprò un'infinità di fiori e fece adornare le strade del paese, Campi Salentina, per poi manifestarsi con un biglietto: «Solo fiori, niente opere di Bene. Il vostro Carmelo».

E il Carmelo più che mai nostro, il nostro monte invalicabile, fu e resta il trono di Nostra Signora dei Turchi e se tornasse, lui che era «apparso alla Madonna», oggi alla Regina dei Cieli darebbe il braccio, muovendosi sui suoi passi per uscire dal proprio cammino e volerla per sempre «dipinta lassù».

Altro che concetto di volto, e scusate se è poco tutto quel ludibrio dell'arte dissipato in sottrazione, tanto più che Bene, esangue, non fa che ritornare, dando fuoco ogni volta che fa capolino. Come quando CasaPound, la domus dei cattivi usciti da tutti i cammini, l'ha proclamato vincitore di una dedica postuma (CasaBene, «per non dimenticarlo»), e ne è venuto fuori un frettoloso esorcismo conformista, affidato a una sola pernacchia.

Perché è vero che Carmelo Bene, al Costanzo Show, alla precisa domanda: «Maestro, lei è fascista?» rispose con una pernacchia, ma è anche vero che subito dopo aggiunse: «Nazista, piuttosto». Aveva imparato musica e arte da bambino, ascoltando nelle sue Puglie i soldati tedeschi cantare: «Sono diavoli ma cantano come angeli». Della prossimità col demonio fece volontà e rappresentazione. E guizzo da guitto.

Come quando, nel 1983, arrivando a Catania, all'aeroporto venne accolto dalle telecamere dei Tg locali per via del furto del tir che trasportava la strumentazione per lo spettacolo (un sublime uno-due Hölderlin-Leopardi, dal titolo «...mi presero gli occhi»). I giornalisti lo seguivano, lui era come una belva quando infine, nel guizzo, afferrò con le mani l'occhio di una telecamera e - col tono di chi parla al diavolo - disse: «Nitto, fammi ritrovare il tir».

E quel Nitto era Santapaola, il capomafia, che non sapeva nulla di Bene, eppure il tir venne fatto ritrovare, forse al prezzo di qualche omaggio; solo che i malcapitati picciotti, seduti in sala, non sapevano di tutto quell'irredimibile, e al chiudersi del sipario sul sussurro «...e mi presero gli occhi!», si alzarono e dissero agli spettatori: «...e vi fotterono cinquantamila lire!». Se tornasse in vita, Carmelo Bene, se ne resterebbe a contemplare il fuoco. Quello del fornaio. Per darsi un poco di rosso alle gote.

 

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