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UNA VITA TRASH-ENDENTE - IL BOOM DI ASCOLTI SUL FUNERALE CASAMONICA? È STATA LA NOSTRA INCONFESSABILE CHANCE DI DARE VOCE, E CORPO, AI NOSTRI PEGGIORI SENTIMENTI E AL GUSTO DELL’ORRIDO CHE ALBERGA IN OGNUNO DI NOI

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Fabiana Giacomotti per Il Foglio

 

Sull’irresistibilità del trash, credo che molto abbia già detto Tommaso Labranca nell’”Estasi del pecoreccio” e che qualche annotazione sapida sia arrivata anche da Andrea Ballarini nel suo “Manuale di conversazione”, pubblicato dal Foglio qualche anno fa. All’uscita della “Grande bellezza”, con quel suo irresistibile degrado dell’estetica felliniana in un’accozzaglia di quadretti citazionisti, fu per esempio inevitabile aggiungervi un paio di postille, non lo facemmo per “Youth” perché non avrebbe avuto senso ripetersi.

 

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Ma insomma, tutti noi che di simili osservazioni viviamo avremmo potuto continuare ancora a lungo a parlare di trash aggiungendo dettaglio a dettaglio, distinguo a distinguo: sul web si trova infatti un’infinità di chiacchiere sulle differenze fra trash, camp e kitsch, scritto non di rado come il colloquiale del sostantivo kitchen in inglese, cioè “kitch”, che non è poi così lontano come parrebbe dalla sua origine tedesca sulla pratica dello sbarazzo, ma che inevitabilmente introduce una gustosa aggiunta trash alla propria essenza.

 

Poi, sorpresa. L’uno-due del boom di ascolti sul funerale Casamonica e il debutto dei palinsesti televisivi autunnali, dominati certo dagli emoticon facciali di Barbara d’Urso nei pomeriggi di Canale5 ma per essere onesti trasversali e tracimanti anche su ogni altro canale perché non vorrete dirmi che la mimica di Paola Perego sia meno teatralmente compassionevole di quella dell’antica figurante di “Stryx” seni al vento o che “Come ti vesti?” insegni a qualcuno l’eleganza, ha infatti svelato un aspetto del trash che fino ad oggi avevamo trascurato, o che forse non si era ancora manifestato con chiarezza, e cioè la sua assoluta utilità.

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La sua funzione riequilibrante nei confronti dell’imposizione del buon gusto e del pensiero unico e uniformante. Viva il trash; per maggiore evidenza andrebbe scritto in corsivo e in caratteri maiuscoli. Il trash è la nostra valvola di sfogo, la nostra chance di dare voce, e corpo, ai nostri peggiori sentimenti e al gusto dell’orrido che alberga in ognuno di noi e che da troppo tempo  siamo costretti a tenere a bada. Il trash consapevole, praticato come scelta, ma anche osservato negli altri, goduto in allegria, è la nostra inconfessabile liberazione, il rifugio contro un’eleganza di sentimenti e di modi che siamo ben lungi dal provare naturalmente e che dobbiamo usarci violenza per esercitare di continuo, ogni giorno, a casa, al lavoro e nella cosiddetta coppia o similari.

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Siamo anzi fin troppo consapevoli di essere sempre seduti sul nostro culo e sulle sue funzioni, alla faccia di Montaigne e di Milan Kundera e della sua teoria negazionista sulla defecazione che, infatti, postulava il kitsch, o per meglio dire una metafisica del kitsch come espressione di quanto è socialmente ed esteticamente accettabile e dal quale la merda è (almeno ai nostri giorni e nella nostra cultura, chissà come avrebbero considerato questo punto nel secolo d’oro di Versailles, dove le funzioni corporali del re erano una faccenda semi-pubblica e ogni peto del sovrano accolto con sorrisi di approvazione) del tutto esclusa.

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Il trash se ne infischia della melassa, del carico sentimentale che il kitsch porta con sé come degli angioletti della sua rapprese, tentazione estetica e del suo universo consumistico, clamorosamente inalterato dall’Ottocento gozzaniano ad oggi come se architettura e infinite correnti di design non fossero mai esistite: il trash identifica, trova ed enfatizza solo il peggio, polverizzando qualunque categoria estetica trovi sulla propria strada, a partire dal buon senso e dalla morale.

 

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Se volete avere idea di quale sia oggi il senso da attribuire alla “spazzatura culturale”, suonati ormai quarant’anni dai primi film che la utilizzarono come termine di paragone per “Rifiuti di New York” di Paul Morrissey, cercate fra i canali televisivi mondiali e troverete, sostenuta da uno scroscio di applausi, la pratica di ogni divieto e la materializzazione di ogni incubo, ogni perversione e tabù umano, in una cavalcata mozzafiato che azzera tremila anni di civiltà e di confessioni religiose: dall’esibizione di bambini semi-svestiti e truccati, inseguiti dalle telecamere (“Toddlers and Tiaras”), al parto a propria insaputa (“Non sapevo di essere incinta”) alla resistenza ai movimenti gastrointestinali (“Hurl”, vince chi resiste di più all’impulso di vomitare in pubblico).

 

Se il kitsch è banale come gli angioletti di ceramica che lo qualificano, parecchio ridicolo, perfino un po’ agé, il trash è potente, ghignante, eternamente giovane perché sempre pronto ad autoalimentarsi e a presentarsi rigenerato in nuove forme: non ha bisogno di alcuna giustificazione artistica, anzi di solito la rifiuta, perché il suo scopo ultimo non è piacere a qualcuno, ma anzi schifarlo, calpestandone ogni etica residua. E’ lo sberleffo, l’ultimo lazzo, il buffone crudele, la boccaccia definitiva, l’indicibile e l’impraticabile.

 

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Ma soprattutto – ed è questo il suo aspetto più nuovo e certamente il motivo per cui iniziamo a ritrovarne segni ovunque domandandocene la ragione - il trash con le sue boccacce, le sue scoregge, il suo razzismo verso ogni categoria di “svantaggiati” (dalla “Corrida” allo “Show dei record” il filo è diretto, e se voleste paragonare le espressioni di Corrado e di Gerry Scotti le trovereste identiche), i suoi tessuti e i suoi pellami di cattiva qualità, le sue griffe ormai assimilabili a ciarpame e la sua ignoranza esibita, anzi scambiata con la pratica del sentimento e dell’”emozione”, è l’unico antidoto possibile alla dittatura del politicamente corretto.

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Per questo ha tanta fortuna, e per questo ne troveremo sempre di più: il trash riequilibra ex abrupto, senza neanche domandarcelo, la retorica della fratellanza universale e l’ipocrisia del neologismo peloso che vorrebbe espungere l’epiteto di “gobbo” al Quasimodo di Victor Hugo e che giudica ogni argomento contro il pensiero unico un attacco ad hominem di inaudita violenza.

 

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Il godimento del trash, in compagnia o anche da soli (confesso di aspettare la domenica sera per guardare la replica di “Pupetta Maresca: il coraggio e la passione”, rapita dall’inespressività smaltata di un cast che riesce a travolgere perfino i pochi attori di buona scuola come Tony Musante) è infatti l’unica, ultima possibilità che ci sia concessa per darci all’ineleganza, per guardare con golosità gli orripilanti tacchi argentati con plateau stronca-caviglia della D’Urso e la strepitosa carrozza funebre di Vittorio Casamonica col cocchiere calzato di tuba a sghimbescio, peraltro straordinariamente simile a quella che i milanesi usarono per i funerali del “nostro Santo” Alessandro Manzoni, andate a vedere le foto d’epoca se non ci credete perché mai epoca fu più trash del Vittorianesimo che non a caso fu anche la prima in cui si diede fiato alla retorica dei buoni sentimenti e ai tromboni della compassione regalata a piene mani anche quando non richiesta ma semmai disprezzata.

 

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Di trash c’è bisogno per non sentirsi soffocare sotto la coltre pesante del piagnisteo generalizzato, del vittimismo post colonialista e mai superato, e non capisco perché ci si stupisca tanto del consenso crescente nei riguardi di Donald Trump come possibile futuro presidente Usa, parrucchino escluso si intende perché anche al gusto per il trash dev’esserci un limite: solo la comica Amy Schumer ha il diritto di fare battute a sfondo sessuale sui messicani o di prendersela con gli stereotipi di genere, compreso quello femminile che ci vorrebbe tutte e sempre e naturalmente vittime?

 

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I Casamonica che distruggono le cassette dei colleghi della Rai corsi con le telecamere a riprenderne usanze e costumi come se non li avessero sempre avuti lì, fra i pratoni di Cinecittà, e che urlano loro addosso se “si credano più furbi di noi che siamo zingari” sono un grido liberatorio per tutti noi che cambiamo marciapiede quando vediamo arrivare tre ragazzine sinti con le loro gonnellone (bellissime, va riconosciuto) e con le mani leste come le nostre non potrebbero essere mai, ma che non oseremmo dirlo, tanto meno scriverlo come sto facendo adesso, senza la protezione di una sponda culturale riconosciuta, e condivisa, e soprattutto senza una giustificazione minima sufficiente. Il funerale alla parrocchia don Bosco ce l’ha fornito, con tutto lo sfarzo possibile e con la postilla sulla pedofilia ecclesiale “mentre noi non violentiamo nessuno”.

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I Casamonica che si dichiarano portatori di cultura differenziante, non omologata rispetto a quella del pensiero unico occidentale, che si ritengono scorrettissimamente “diversi” nonché “superiori” in virtù della loro capacità di fregarci come e quando vogliono sono una boccata di ossigeno, un regalo inaspettato, un balsamo per il senso di colpa dell’occidente liberale e per l’esaltazione vittimistica delle minoranze.

 

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L’hanno detto loro che sanno come e quando fotterci, abbiamo il permesso di non trovarli simpatici. Ma il fatto è che invece li troviamo simpatici, che ci piacciono eccome con i loro denti d’oro e le Ferrari rosse e le decine di scatole di borse e scarpe Fendi e Chanel requisite di recente e fatte oggetto di un servizio fotografico che abbiamo osservato avidamente, increduli; sono anzi sicura che anche Karl Lagerfeld li troverebbe meravigliosi, a-do-rables, questi clienti della sua creatività in effetti un po’ e da sempre sopra le righe, un po’ teutonica ovvero kitsch, in ogni caso cento volte più divertenti di una qualunque casalinga residente in una zona semi-centrale della capitale o, peggio, di Milano, la città delle ballerine senza tacco e dei cerchietti fra i capelli anche a cinquant’anni.

 

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Perché il gusto dello spariglio, che nella società del pensiero unico universale sempre si accompagna all’esercizio dell’intellettualità o presunta tale, prevede anzi esige che si trovi il trash spiritosissimo, divertentissimo, una ventata di novità e di aria fresca rispetto all’esercizio dell’eleganza e della continenza morale che è pratica vecchia, borghese per quel che di borghese esiste ancora, dunque retrograda e noiosa.

 

Come paragonare una normale routinière dei talk show televisivi come Silvia Sardone o Anna Ascani, perfino Daniela Santanché che pure ha tenuta di spirito e gusto per lo sfoggio vistosissimo, con una di queste Casamonicas che si piazzano larghe come comò e luccicanti come idoli davanti alle telecamere de La7 vomitando insulti in grammelot ai politici, denunciando inadempienze nella ricostruzione dell’Aquila, equiparando mafia e stato, sbaragliando il duo furbetto Labate-Parenzo palesemente incapace di governarle se non interrompendo il collegamento?

 

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Il trash è appunto vitale, non irreggimentabile, ma i nostri tentativi di appropriarcene senza caderne (ancora, sempre) vittime spesso patetici. Siamo partiti negli Anni Cinquanta con quel tanto di turpiloquio per distinguerci, tutti da Fulvia il sabato sera a parlare della prossima, sicura affermazione dell’uguaglianza sociale e a intercalare di “cazzo” ogni cinque secondi e dopo tanto affannarci eccoci qui, ad aspettare il reality di Rocco Siffredi per poter dire accidenti, chi se lo aspettava un porno attore con una vita così impiegatizia, così uguale alla nostra, “un papà come tanti” secondo la sua stessa affermazione e come se non sapessimo tutti e tutte che tanto uguali agli altri non è, eppure per nulla trash come vorremmo ma anzi elegante, garbato, pronto ad alzarsi dalla poltrona all’ingresso di una signora nella stanza e sempre con quella differenza innominabile.

 

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Non vogliamo il porno attore elegante, siamo coscienti di come sia ormai impraticabile ogni pretesa di eleganza in un mondo polarizzato fra trash e correttezza morale ed estetica, fra affermazione sgomitante dell’io singolo e acquiescenza penitenziale dell’io collettivo, ma non abbiamo il coraggio dell’ultimo passo, siamo bloccati sull’ultimo miglio: ondeggiamo incerti, affascinati dal coraggio dei Casamonica, dei Trump e delle Barbare d’Urso che surfano sereni fra i fuorionda più demoralizzanti e le riprese più impietose, nell’ultimo caso naturalmente senza curarsi dei rimbrotti dell’Ordine dei giornalisti perché privi del benché minimo interesse a qualunque delle sue insegne, tesserino o divisa ideale che sia (“mia cara, tu non hai bisogno di questi ammennicoli da intellettuale”, le sibilò Daria Bignardi in un’intervista ferocemente trash, vedendola provarsi i suoi occhiali da vista a mo’ di cerchietto fra i capelli insopportabilmente folti). Guardiamo, ammiriamo, vorremmo abbandonarci all’emulazione, eppure siamo incapaci di abbandonarci alla spazzatura. Il trash è per anime forti. Agli altri resta il politicamente corretto.

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