BOSS, A CHI? DAI CONSIGLI DI JACK NICHOLSON AL “PADRE DELLA PATRIA” BOB DYLAN, ECCO LO SPRINGSTEEN PENSIERO: “LA GUERRA IN VIETNAM E’ FINITA NON CON LE PROTESTE DEGLI HIPPY MA QUANDO HANNO INIZIATO A CONTESTARLA I CAMIONISTI. IL NOMIGNOLO BOSS? NON MI E’ MAI PIACIUTO”

Alcuni brani di intervista a Bruce Springsteen del libro “A proposito di un sogno” pubblicata da "la Repubblica" - Traduzioni a cura di Dario Ferrari

 

bruce springsteen musicaresbruce springsteen musicares

Mi piace salire sul palco e comportarmi da pazzo ed esprimere me stesso in modo fisico, e mi piace che i membri della band possano mettersi a fare gli scemi. Ma anche nel corso di serate del genere c’è un modo in cui puoi riuscire ad abbassare i toni. La voce con cui parli è una componente, non una delle più importanti, ma c’è anche quella. Mette le persone a proprio agio, riesce a tendersi verso di loro e a creare un ponte per quella che, altrimenti, sarebbe una musica difficile.

 

Quand’ero giovane c’era una sorta di rispetto per chi faceva il pagliaccio durante un concerto rock, gente tipo Little Richard. Faceva parte del gioco, e io ho sempre pensato che servisse a sciogliere il pubblico. In realtà era anche un modo per rimpicciolirti fino a raggiungere le dimensioni di un uomo normale. Come che sia, a me piaceva farlo, mi divertivo, e non ho mai pensato che essere seri e fare il pagliaccio fossero due atteggiamenti che si escludono a vicenda.

 

Bob Dylan - Sinatra - SpringsteenBob Dylan - Sinatra - Springsteen

Voglio dire: puoi fare qualcosa di abbastanza stupido e poi passare a fare qualcosa di profondamente serio in un batter d’occhio, e se hai un buon legame con il pubblico ti verranno tutti dietro senza problemi. Quando sto sul palco ovviamente mi piace anche raccontare storie, ma questo fa parte di una tradizione, la tradizione folk. E mentre lo faccio, mentre parlo, guardo le facce delle persone. Poi inizio con alcuni pezzi meno conosciuti, che sorprendono il pubblico e gli fanno capire che non sarà una serata come le altre. Insomma, offro un servizio,e mi piace pensare che sia un servizio di cui la gente ha bisogno.

(Nick Hornby, “A Fans Eye View”, The Guardian , 17 luglio 2005. Con l’autorizzazione di Guardian News and Media Ltd )

BRUCE SPRINGSTEEN CANTA CON GLI U2BRUCE SPRINGSTEEN CANTA CON GLI U2

 

LA POLITICA

Ho viaggiato un sacco quando avevo diciotto, diciannove anni. I miei genitori se n’erano andati e quindi più o meno una volta all’anno guidavo fino alla West Coast per andare a trovarli. Ero sempre insieme a due, tre o quattro amici, e un cane, e facevamo questi lunghi viaggi attraversando il paese: ci stringevamo tutti in un furgoncino e viaggiavamo tre giorni di fila senza fermarci. No, a quel tempo non avevo alcuna coscienza politica. Era l’ultima cosa al mondo che avevo.

 

BRUCE SPRINGSTEEN CANTA CON GLI U2  BRUCE SPRINGSTEEN CANTA CON GLI U2

Oddio, forse adesso sto esagerando. Diciamo che negli anni Settanta alle conferenze stampa tutti facevano domande politiche molto serie. E se tu non ti interessavi alle proteste contro la guerra del Vietnam, non ti importava di quello che faceva il governo e dei vari cambiamenti culturali, beh la gente cominciava a pensare che tu avessi qualche problema.

 

BRUCE SPRINGSTEEN CANTA CON GLI U2 BRUCE SPRINGSTEEN CANTA CON GLI U2

La gente si interessava all’underground, voleva guardare oltre il velo di ciò che ti veniva mostrato ogni giorno. C’era l’idea che ci fosse qualcosa al di là di quello che vedevi e di quello che ti veniva fatto vedere. E tutto questo era un qualcosa che pervadeva l’intero paese, almeno credo, non solo la parte più progressista della società. Voglio dire: la guerra del Vietnam non è finita quando la contestavano solo gli hippy o i progressisti, è finita quando hanno cominciato a contestarla anche i camionisti.

 

Tutto questo voler vedere dietro la maschera mi affascinava. Non ho mai letto il Manifesto del Partito comunista , ma in quegli anni mi sono avventurato a leggere molte delle cose che trovavo, e un sacco di filosofi diversi, certo, sempre a spizzichi e bocconi. Un libro che su di me ha avuto un effetto enorme è stato America , di Henry Steel Commager (e Allan Nevins, ndt), una storia degli StatiUniti davvero potente. Era un libro che andava alle radici di quell’insieme di valori democratici che ha guidato il paese, a volte di più e a volte di meno. Ed è stata la prima cosa che ho letto che mi ha fatto sentire parte di un continuum storico, che mi ha fatto sentire come partecipe nella catena degli eventi.

springsteen zac brown dave grohlspringsteen zac brown dave grohl

 

È stato in un certo senso il momento in cui mi sono sentito parte del mio tempo. Nel corso della tua vita la strada che prende il tuo paese dipende anche da te. E tu che cosa hai fatto? Questa domanda semplice e concreta ha cambiato per sempre il mio modo di vedere la vita, il mio lavoro e il posto in cui vivevo e ha orientato alcune delle cose che scritto — ovviamente unita al fatto che volevo suonare il rock’n’roll e divertirmi. Se ne vedono gli effetti in Darkness , in una canzone come The River o in Nebraska .

 

BRUCE SPRINGSTEEN CANTA CON GLI U2   BRUCE SPRINGSTEEN CANTA CON GLI U2

E certamente anche in Born in the U.S.A. È la storia di un veterano del Vietnam che è furibondo perché si sente in conflitto con le forze della storia. Ma questo tizio ha accettato il fardello, personale e storico: è arrabbiato, c’è un elemento sociale e c’è molta meno innocenza. Parecchi dei veterani che avevo incontrato mi avevano commosso. Fu solo all’inizio degli anni Ottanta che nacque l’associazione dei veterani del Vietnam.

 

Il mio amico Bob Muller ne era a capo. Ricordo di essere andato a vedere Il cacciatore con Ron Kovic, l’autore di Nato il quattro luglio , che cercava delle cose che riflettessero la sua esperienza. Born in the U.S.A. è nata da lì. Bob Muller è stata la prima persona a cui l’ho suonata. E fu bellissimo.

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(Phil Sutcliffe, “You Talkin to Me?”, Mojo , gennaio 2006. Bauer Media Group)

 

 

LE CANZONI

Quando si tratta di musica se uno più uno fa due, allora hai sbagliato tutto, amico: uno più uno fa tre. Se dipingi, e poi non hai altro che il colore e la tela, hai sbagliato tutto. Se hai solo le note, hai sbagliato tutto. Devi trovare quel terzo elemento, quell’elemento che non capisci fino in fondo ma che emerge da dentro di te. Se non arrivi a toccare quell’elemento lì, non avrai niente da dire, la tua opera sarà priva di vita e di respiro. In altre parole quello che crei non sarà vero.

 

Penso che la prima canzone che ho scritto sia stata proprio The River e l’ho scritta pensando a mia sorella e a mio cognato. Era la fine degli anni Settanta, in New Jersey, e c’era la recessione. Mio cognato faceva il muratore, i cantieri si sono fermati, ha perso il lavoro, un periodo tremendo. Mia sorella — ho una sorella che è più piccola di me di un anno — è diventata madre giovanissima e ha avuto una vita molto difficile, come i miei genitori. E quindi, per qualche ragione, ricordo che una sera mi sono seduto alla scrivania e sono venuti fuori i primi versi di The River .

bruce springsteen al marebruce springsteen al mare

 

E mi sono detto che mi piaceva scrivere in quel modo. La cosa bella nello scrivere canzoni è che racconti delle storie, ci provi e speri di diventare parte di quella tela che è la vita delle persone. Poi, ovviamente, vuoi anche che la tua musica le faccia ballare, ridere, divertire e che l’ascoltino mentre passano l’aspirapolvere.

 

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Penso che le mie più grandi ambizioni, quand’ero giovane, riguardassero il cercare di fare qualcosa di simile a quello che credevo la musica avesse fatto per me. La musica, certi artisti, erano diventati una parte importantissima della mia vita. Penso sempre, beh, a Dylan, lui è il padre del paese che riconosco come mio.

 

È il padre del mio paese nel senso che è nella sua musica che per la prima volta ho sentito un’America che percepivo e ritenevo vera, che sentivo autentica, reale, che rispecchiava la mia esperienza quotidiana. E ti allargava gli orizzonti in un modo che, a quei tempi, per me non lo faceva la scuola e non lo facevano altre cose. E ti permetteva di sognare,

ti apriva delle possibilità riguardo a quello che avresti potuto fare di te stesso, che avresti potuto fare della tua stessa vita… e insomma sì, ti faceva capire che lì fuori c’era un’intensità di vita che era più o meno alla tua portata.

(Elvis Costello, Spectacle , 2009/2010).

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IL SUCCESSO

Io non ho mai chiesto consigli in merito, se non a una sola persona. Ero a Los Angeles nel 1975, cioé l’anno in cui abbiamo sfondato. A vederci suonare era venuto Jack Nicholson, che è originario di Neptune, New Jersey, a due passi da Asbury Park. Dopo il concerto siamo stati un po’ insieme. Anche lui era appena diventato un attore piuttosto famoso. Per cui, parlando, gli ho chiesto: com’è stato per te? Che idea ti sei fatto?

 

E lui mi ha risposto: «Beh, io ero più vecchio, ero già in ballo da un bel pezzo, e comunque ero più vecchio di te adesso, quindi quando è successo ero pronto». Io invece avevo ventiquattro, venticinque anni, e ho dovuto trovare un modo per orientarmi, una mia strada. Ma per fortuna avevo la band ed ero circondato da brave persone. Quelli che non ce la fanno sono quelli che non hanno nessuno accanto a sé.

(Robert Santelli, grammy.com , 2013)

 

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IL NOME

Come nasce la storia del nome “boss”? No, non lo so come è nata esattamente. Diciamo che è cominciata con quelli che lavoravano per me. Naah, non doveva essere “il Boss”, con la B maiuscola. Era una cosa tipo “ehi boss, dov’è la paga della settimana?”. Una cosa del genere, amichevole, era una cosa della band, solo una cosa così, un nomignolo tra amici. E la cosa buffa è che a me non è mai piaciuto. Neanche ora. No, davvero, dico suol serio, non mi è mai piaciuto.

(Dave Herman, “King Biscuit Flower Hour”, programma trasmesso su varie stazioni radio, 9 luglio 1978)

 

 

 

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