
LLERA GLACIALE: “MORAVIA MI LASCIAVA LIBERA DI VIVERE RAPPORTI CON ALTRI UOMINI PERCHE’ MI ACCETTAVA PER COME ERO. MA ANCHE LUI AVEVA LIBERTÀ. LA SUA CASA NEGLI ANNI OTTANTA ERA FREQUENTATA DA SPLENDIDE DONNE. CAROL BOUQUET. FANNY ARDANT. FRANCESCA DELLERA”
Simonetta Fiori per “la Repubblica”
Quando cominciò la storia d’amore lei aveva ventisette anni, lui settantacinque. Carmen Llera e Alberto Moravia, una giovane spagnola dall’aria un po’ misteriosa e lo scrittore più famoso d’Italia. A dispetto di pettegolezzi e dei cattivi auspici, il loro legame è durato un decennio, fino alla morte dello scrittore, nel settembre del 1990.
Fughe, gelosia, molta letteratura. Venticinque anni dopo Carmen non ha perduto quella sua femminilità esile e quasi adolescenziale che tradisce inquietudine. Si acciambella nel divanetto dell’Hotel Minerva, una sorta di dependance della sua casa nel Ghetto a Roma, e ripercorre la loro storia come se non le appartenesse.
Come se avesse paura di possedere cose e ricordi. «Tempo fa ho pubblicato alcune lettere di Alberto perché volevo scrivere del nostro amore. Poi le ho distrutte ».
Lettere molto tenere ma anche disperate. Il filo è quello di un uomo innamorato che non riesce a prenderla del tutto.
«Lui non l’ha capito, ma in realtà è stato l’unico uomo che mi ha preso. Ho sempre considerato la convivenza una condizione impossibile, mentre con lui fu resa facile dalle nostre affinità: sveglia mattutina, abitudini frugali. E piccoli gesti quotidiani d’affetto».
Moravia sembra ossessionato dalle sue fughe. E al momento di andare a vivere insieme le chiede un’assunzione di responsabilità per una convivenza duratura: sia con lui che con se stessa.
«E infatti me la sono assunta».
Nella stessa lettera sembra lasciarla libera di vivere rapporti con altri uomini.
«La grande intelligenza di Alberto è stata di accettarmi per come ero. Ha capito la mia indole e l’ha rispettata. Ti amo perché sei tu, mi diceva. Io non mi sono mai fatta possedere perché non ho mai voluto possedere nessuno. E lasciavo anche a lui grande libertà».
Ma lui questa libertà non la voleva. È molto esplicito nei suoi messaggi: voleva fare l’amore solo con lei.
«Mah. La sua casa negli anni Ottanta era frequentata da splendide donne. Carol Bouquet. Fanny Ardant. Francesca Dellera. Non so se ci sia mai stata intimità, né l’ho mai voluto sapere».
Lui invece era geloso. E stava male all’idea di una “presenza straniera in un luogo intimo”.
«Sì, ma questo suo sentimento non ha mai costituito un problema tra noi. Se uno sta male, se ne va o lascia andare. E lui invece non mi ha mai lasciato andare, anche quando glielo chiedevo».
Era molto innamorato. E preferiva sapere anziché cadere nell’inganno, “la forma più triste di disaffezione”.
«E io non l’ho mai ingannato. Quando capitava, e non è successo poi tante volte, gli raccontavo le mie storie. No, non la prendeva bene. Ma tra noi era molto forte questo stato d’animo di intrigo e curiosità».
Come se lei incarnasse l’idea letteraria che Moravia aveva dell’amore: una tensione mai risolta, un’emergenza continua.
«Sì, forse mi ha inventato prima di incontrarmi. Mi capita spesso di rileggere i suoi romanzi e di riconoscermi in personaggi irrequieti e ribelli che lui ha creato quando ancora non ero nata».
Nella “Donna leopardo”, il romanzo postumo, ci sono tracce autobiografiche. Il personaggio femminile confessa al suo uomo l’attrazione per un amico comune.
«Mi ritrovo nell’atmosfera ma non nei dettagli della trama. Là c’è una cosa che faceva impazzire Alberto: il mio decidere all’ultimo istante, anche fare la valigia cinque minuti prima di partire. Una nostra tipica conversazione a colazione: “Allora andiamo al cinema alle quattro?”. “Te lo dico alle tre”. “Ma perché?”. “Voglio essere libera di decidere”. Si arrabbiava molto».
CARMEN LLERA MORAVIA PRIMO PIANO
Che rapporto era il vostro?
«Complice. Coincidevamo in molte cose, anche nel gusto e nella lettura. Io ero giovane e consideravo tutto questo naturale. Non cercavo certo il padre, né lui voleva esserlo. E non sentivo la differenza di età».
Lui però l’avvertiva, e ne era anche spaventato.
«Solo a volte. Negli ultimi anni appariva molto irritato dal decadimento fisico. Una volta in Irlanda rifiutò sdegnosamente la sedia a rotelle messa a disposizione in aeroporto. “Mai”, mi disse con durezza. “Ma sei ridicolo”, gli dicevo. “Da sempre hai problemi con la gamba”. Il decadimento vero è quello intellettuale ».
Però la dimensione corporale è stata molto presente nel vostro rapporto, fin dall’inizio.
«Sì, erano passate poco più di quarantotto ore dal nostro primo incontro a Sabaudia. Accadde nella sua casa sul Lungotevere: sul divano bianco mi afferrò con le sue mani grandi, forti. Ero andata da lui per discutere di cinema e letteratura. Di Alberto mi piaceva tutto: il fisico asciutto, le folta sopracciglia bianche, il grande naso ricurvo».
Lui però temeva di perdere questa sua fisicità prorompente. «Io ho 75 anni e faccio l’amore come quando ne avevo 40 anni ma non è affatto detto che tra quattro o cinque sarà così».
«Viveva tutto con straordinaria lucidità, ma io ero troppo giovane per capire. Ora a sessant’anni capisco le sue ansie sul tempo che passa».
Lei scrive che Moravia in amore era un autodidatta.
«Alberto è stato un autodidatta in tutto: nella sua formazione culturale, nell’educazione ai sentimenti. La madre, una borghese di straordinaria eleganza, lo chiamava “lo sciancato”. E lui ne soffriva molto ».
«Nessuno ti amerà come ti ho amato io». E’ stato un buon profeta?
«Sì, anche se un po’ presuntuoso. Aveva ragione per una ragione semplice: sposarmi fu un atto di grande coraggio ».
Perché volle sposarla?
«Per non perdermi, suppongo».
Sembra molto attento anche a suo figlio.
«Dopo Elsa Morante e Dacia Maraini sono stata la sua prima donna madre. E questo lo incuriosiva. Ci osservava entrambi con lo sguardo dell’entomologo. E con il bambino poi adolescente riuscì a stabilire un dialogo surreale».
Alberto Moravia e Carmen llera
In che senso?
«Mio figlio gli imponeva la sua presenza ma nel silenzio. Muto. Alberto ci rimaneva male, così riuscì a trovare un escamotage: si rivolgeva a lui in inglese, ricevendone risposte nella stessa lingua. Forse aveva capito il suo rifiuto verso la lingua che le aveva portato via la mamma: ero arrivata dalla Spagna per un breve soggiorno e ci restai per sempre».
Da queste sue istantanee Moravia appare contento della sua singolare famiglia.
«Sì, “la famiglia Moravia”: così ci accolsero tutti e tre in Unione Sovietica, e mi parve molto buffo: lui, il principale distruttore in letteratura dell’istituto famigliare… ».
Avrebbe voluto figli suoi?
«Non lo so. E non mi sono mai posta il problema».
Lui la rimproverava di essere una donna dura.
«Durezza spagnola, diceva. Perché non ho quel sentimentalismo delle donne italiane ».
Oggi cosa le manca di più?
«L’intelligenza».
La notte si svegliava di soprassalto.
«Era molto ansioso. Mi ricordo che nei suoi viaggi africani si portava sempre dietro una valigetta piena di Valium e pasticche varie. Un sacco di volte siamo finiti al pronto soccorso».
Non sembrava però il tipo da corteggiare il suicidio.
«Nelle sue poesie più tarde si parla molto di morte e di suicidio, ma è un tema che ha riguardato più me e la mia famiglia. Mio padre ci provò più volte per poi morire di noia a novantadue anni».
Lei lo descrive come un uomo timido.
«Sì, in fondo lo era. Ma la sua timidezza veniva scambiata per arroganza. Invece era semplice, aiutava gli scrittori più giovani. Da noi ricordo anche un giovane Rushdie ben prima dei Versetti satanici»..
Ha conosciuto Elsa Morante?
«Sì. Si mostrò incuriosita dalla mia origine spagnola. Poi una volta in clinica davanti a Carlo Cecchi mi tramortì: sei troppo bella».
Non era un complimento?
«No, mi sembrò una violenza. Lo intesi come sei troppo bella per stare con noi, per occuparti delle nostre cose».
Cosa ha capito oggi di Moravia?
«Ora mi rendo conto ancora di più della sua grandezza, come scrittore lucidamente europeo e come uomo».