IL CINEMA DEI GIUSTI - "IL PADRE", UN FILM SUL GENOCIDIO DEGLI ARMENI, CRITICATO A VENEZIA MA DA DIFENDERE: SARÀ UN POLPETTONE ROCK E UN PO' RETORICO, MA È UNA STORIA COMMOVENTE, SCRITTA DALLO SCENEGGIATORE DI SCORSESE

Marco Giusti per Dagospia

 

Il padre di Fatih Akin

 

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Alla fine dobbiamo tutti fare i conti con la storia. Questa è una storia di un secolo fa, ma che potrebbe benissimo essere ambientata oggi. Un padre, scampato al genocidio degli armeni da parte dei turchi e a ogni tipo di sopruso e crudeltà, parte alla ricerca delle sue figlie gemelle, travolte dall’arrivo della guerra e finite in chissà quale parte del mondo. Quando venne presentato lo scorso settembre a Venezia, in concorso, Il padre, più noto come The Cut, sofferta ultima opera del regista turco di cittadinanza tedesco Fatih Akin, già regista di film molto diversi come Soul Kitchen, non piacque a tutti.

 

A alcuni sembrò un po’ retorico e troppo vecchio stile. Altri lo trovarono una sorta di polpettone rock piuttosto intenso e commovente sull'odissea di un giovane fabbro armeno tra il 1915 e il 1923 interpretato da una superstar francese come il Tahar Rahim già protagonista di Il profeta. Supersegnalato e molto amato da Martin Scorsese, anche perché lo ha scritto il suo storico sceneggiatore Mardik Martin (Mean Streets, Toro scatenato), di origine armene, che non scriveva un film da 34 anni e si era ritirato a insegnare scsneggiatura, il film, prodotto da sei diversi paesi, ha avuto una lavorazione complessa e non poco martoriata da problemi.

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Non ultimi quelli causati dalla morte di ben due dei suoi produttori, nomi illustri come Fabienne Vonier e Karl Baumgarten detto Baumi, mentre Akin stava ancora girando. Ma va detto che l’operazione, che parte proprio dalla volontà del turco-tedesco Fatih Akin di ristabilire la verità sul massacro degli armeni da parte dei turchi, è molto coraggiosa e sofferta. Inoltre Akin dedica il film al giornalista armeno Hrant Dink, che venne ucciso nel 2007 da un giovane nazionalista turco proprio per aver cercato di raccontare il genocidio del suo popolo.

 

Per tutto il film seguiamo infatti le tragiche avventure di Nazaret Manoogian, interpretato appunto da Tahar Rahim, il fabbro che si ritrova da un giorno all’altro al centro del massacro degli armeni da parte dei turchi nella guerra anglo-ottomana. La sua unica colpa, come quella dei cristiani massacrati dalle squadre jihadiste in Kenya è quella di appartenere a una religione o a una etnia diversa. Allontanato dalla famiglia, finito schiavo dei turchi e diventato muto per un colpo di coltello troppo vicino alla gola, una volta finita la guerra cercherà prima a Aleppo poi a Cuba e infine in America le sue figlie gemelle perdute.

 

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Alle prese con un genere che non è il suo, Akin riprende un po' del western alla Leone, un po' del cinema di viaggio e di deserto più alla Bertolucci che alla David Lean. Ma dentro c’è soprattutto la lezione di Elia Kazan e del suo Il ribelle dell’Anatolia, grande fonte di ispirazione, e un po' dell’epicità del viaggio biblico di un uomo, un padre, alla ricerca della famiglia perduta tra Sentieri selvaggi e Ben Hur.

 

Grande musica del compositore rock Alexander Hacke, bellissime riprese, un film difficile da realizzare, che va comunque difeso, anche se, certo, la scelta di sentire gli armeni che parlano inglese per motivi di globalizzazione e di cast, può non piacere a tutti. In sala dal 9 aprile.

 

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