IL CINEMA DEI GIUSTI – QUESTO SOFISTICATO “THE MASTERMIND" È UN CRIME THRILLER, DOVE IL PROTAGONISTA JOSH O’CONNOR DECIDE DI RUBARE QUATTRO QUADRI DI ARTHUR DOVE. MA È ANCHE UNA SPECIE DI PARODIA MOLTO IRONICA SUI FILM DI COLPI GROSSI E SUL MONDO DEGLI ANNI ’70 – IL REGISTA KELLY REICHARDT APPLICA IL SUO MODELLO DI CINEMA MINIMALE A UNA STORIA CHE POTREBBE BEN FIGURARE TRA LE SCELTE DEI COEN DI “FARGO” E DI ALICE ROHRWACHER: INQUADRATURE FISSE, ATTORI CHE SI ESPRIMONO A MONOSILLABI… - VIDEO
Marco Giusti per Dagospia
Non fosse che per avermi fatto conoscere l’astrattista americano Arthur Dove, molto attivo nella prima metà del Novecento, devo ringraziare Kelly Reichardt e il suo sofisticato, più complesso di quel che sembra, “The Mastermind”, in concorso a Cannes lo scorso maggio, appena uscito da noi ieri nell’indifferenza generale (28 sale, 27° posto, buona fortuna), con un protagonista che più laconico non si può interpretato da Josh O’Connor con la stessa flemma che mostrava in “La chimera” di Alice Rohrwacher.
“The Mastermid”, è un crime thriller, come sottolinea giustamente la rivista Empire, ma “un crime thriller senza alcun interesse per il brivido e poco per il crimine, uno studio del personaggio a tratti frustrante di un uomo che non riesce a togliersi di mezzo”. Ma è anche una specie di parodia molto ironica sui film di colpi grossi e sul mondo degli anni ’70, una sorta di altra faccia di “Una battaglia dopo l’altra” con eroe ugualmente perdente ambientato nel marginale Massachussetts del 1970.
Il protagonista, il J.B.Mooney di Josh O’Connor, è uno stralunato trentenne per nulla risolto con una brava moglie accanto, Alina Heim, un suocero giudice di qualche importanza nel paese dove vive, Bill Camp, e due figli. Quasi per cercare di far qualcosa di utile per la famiglia, ma è un alibi, le sue motivazioni son o più profonde e decisamente più inutili, decide di fare un colpo grosso, rubare dal museo cittadino quattro precisi quadri di Arthur Dove, astrattista nato nel 1880 e morto nel 1946.
Leggo che Dove, dove aver passato qualche anno in Francia e aver preso ispirazione dai Fauves, passò gran parte della sua vita in viaggio tra fattorie e battelli fluviali. Un artista esplosivo e vitale, a differenza di J.B.Mooney, ancora meno attivo di Leonardo Di Caprio rivoluzionario in ciabatte nel film di Paul Thomas Anderson, che cerca di trovare una sua centratura come ladro di capolavori americani nascosti.
Sembra quasi non rendersi conto di quel che sta facendo quando mette su una squadra alquanto scalcagnata che sappiamo da subito non poter funzionare. Infatti rubano i quattro quadri, ma la polizia arresta immediatamente il più tontolone dei ladri e un altro fa la spia a chi non dovrebbe. Malgrado le buone intenzioni di aiutare la sua famiglia, di rendersi utile, l’unica cosa di davvero utile che J.B.Mooney potrebbe fare per la famiglia, è togliersi di torno, non avendo realizzato nessun guadagno, e con la certezza di essersi giocato per sempre un futuro.
Con lo stesso atteggiamento disincantato passa dal furto alla fuga e finirà con la protesta politica, ma cadendoci dentro casualmente. Ma questo J.B.Mooney non è né così sprovveduto né disincantato né stupido come vorrebbe far credere a tutti, dalla famiglia alla polizia. E rappresenta un po’ una faccia diversa dell’America esplosiva degli anni ’70 e del suo muoversi quasi per inedia. Viene fuori un ritratto divertente di un paese che non vuole neanche riconoscere i suoi artisti, come nel caso di Dove né prendersi delle responsabilità.
Kelly Reichardt applica il suo modello di cinema minimale (“First Cow”, “Showing Up”) a una storia che potrebbe ben figurare tra le scelte dei Coen di “Fargo” e di Alice Rohrwacher. Inquadrature fisse, attori che si esprimono a monosillabi. Su tutto una sorta di ribaltamento della figura del protagonista, né eroe né stupido né vittima né carnefice, in un momento storico, gli anni ’70, dove arriveranno grandi cambiamenti.
L’astrattismo di Dove non è tanto diverso da quello della Reichardt. Produce Mubi. Potrebbe anche finire agli Oscar. Ma con la stessa indifferenza che Josh O’Connor incarna così bene per tutto il film. In sala.








