IL CINEMA DEI GIUSTI - NON BASTA LA VIOLENZA PER FARE UN REMAKE: CHE DELUSIONE “OLDBOY” VERSIONE SPIKE LEE

Marco Giusti per Dagospia

Oldboy di Spike Lee

Piano coi remake, ragazzi. Perché possono fare più male delle martellate sui denti. Specialmente quando si tenta il remake di un film di culto internazionale uscito solo una decina d'anni fa come "Oldboy" del coreano Park Chan Wook, che a Cannes vinse un meritatissimo Grand Prix firmato da un presidente di giuria come Quentin Tarantino.

Ora, ha un bel dire Spike Lee che la sua versione americana di "Oldboy" è un po' come l'esecuzione personalizzata di un celebre pezzo musicale o che si è più ispirato al manga giapponese originale, firmato da Nobuaki Minegishi e Garon Tsuchiya, che al film coreano. Purtroppo non solo è un vero e proprio remake, ma è anche uno di quei remake non riuscitissimi, di quelli cioè che ti fanno un bel po' rimpiangere l'originale, che era clamoroso e che abbiamo tutti molto presente nella memoria, anche perché si basava su una serie di invenzione visive e cinematografiche che Spike Lee non trascura di certo.

Mettiamo in conto però la brutta mossa dei produttori che hanno ridotto il film dai 140 minuti di lunghezza originali a 105, rimontando a modo loro la fondamentale scena dell'eroe che prende a martellate i cattivi in un delirio di violenza. Al punto che Spike Lee ha tolto la sua tipica firma "A Spike Lee joint" e ha preferito un meno autoriale "un film di Spike Lee". Mettiamo anche la brutta storia del grafico, tal Juan Luis Garcia, che ha accusato il regista di avergli rubato l'idea per il manifesto e di non averlo mai pagato.

A parte tutto ciò il risultato è stato un incasso disastroso di soli 850 mila dollari nella settimana del Thanksgiving che riduce in poltiglia le possibilità del film, massacrato col martello pure dalla critica, con l'unica eccezione di Richard Brody del "New Yorker" che si è lanciato in una strenua difesa cercando di dimostrare che la versione di Spike Lee è pure meglio dell'originale e che può competere con "Shutter Island" di Martin Scorsese come film disturbante.

Certo, violento e disturbante lo è, ha pure molte cose riuscite, ma non è né il film che pensava di fare Spike Lee né può competere con l'originale. E non si capisce perché un regista così importante abbia voluto cimentarsi in un'impresa così ardua, dalla quale già scapparono a gambe levate Will Smith e Steven Spielberg dopo essersi scontrati per i diritti con gli editori giapponesi del fumetto.

Lee riprende il copione scritto da Mark Protosevich ("Io sono leggenda") e lo sviluppa a modo suo, con un gran gusto figurativo e un gran lavoro sul protagonista, Josh Brolin, che ne fa una specie di remix fra il suo personaggio in "Non è un paese per vecchi" dei Cohen e l'originale di Choi Min Sik.

Brolin è una delle sorprese del film, perché riesce a essere credibile sia come violento angelo della vendetta sia come martire di una situazione assurda. Se Choi Min Sik rimaneva 15 anni chiuso senza un motivo apparente dentro una misteriosa prigione senza sapere come e perché è finito lì dentro, Josh Brolin nei panni del pubblicitario Joe Doucette, ci rimarrà per ben 20 anni.

Ubriacone, infedele, rissoso, Joe non è né il marito né l'impiegato ideale. Proprio la sera del terzo compleanno della figlioletta, preferisce una cena di lavoro a una serata con la famiglia. Non solo perderà la commessa per colpa sua, visto che ci prova pesantemente con la bella donna del suo cliente, ma ubriaco fradicio, verrà intrappolato da una asiatica misteriosa, Pom Klementieff, che lo condurrà nella sua prigione.

Lì mangerà piatti cinesi per 20 anni, sorvegliato da un misterioso carceriere, Samuel L. Jackson con una cresta giallo canarino, e scoprirà, guardando la tv, che è addirittura incolpato di aver violentato sua moglie e di averla sadicamente uccisa assieme alla figlioletta. Avrà tempo per uscire dalla dipendenza dell'alcool, diventare una specie di macchina della morte e, soprattutto, covare una vendetta che scoppierà una volta che si troverà misteriosamente libero venti anni dopo.

Nell'America di oggi, che Joe riconosce a stento, fra cellulari e una situazione politica della quale non sa assolutamente nulla, se la vedrà con un misterioso cattivo, Adrian, interpreto dal geniale Sharito Copley di "District 9", che lo sfida a prove misteriose. Lo aiuterà il vecchio amico Chucky, Michael Imperoli, e una bella ragazza, Marie Sebastien, interpretata da Elizabeth Olsen, che sembra prendere particolarmente a cuore il suo disagio. Ma la situazione è sempre più complessa.

L'elemento più personale del film è la ricostruzione della prigionia di Joe, con la televisione che ci mostra gli ultimi vent'anni di vita americana, dall'11 settembre a Katrina, come in un incubo. Tutto questo non produce però nulla di "politico" nel personaggio di Josh Brolin. Il suo disagio è quello atemporale legato alla sua vendetta. Magari nei 35 minuti che sono stati tolti dal film, qualcosa di più avremmo capito. In sala dal 5 dicembre.

 

 

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