SORKIN, IL GENIO - DA “CODICE D’ONORE” AL CAPOLAVORO “THE WEST WING”, CHE TRASFORMÒ LA COMUNICAZIONE POLITICA IN UNA TRAMA AVVINCENTE, FINO ALLA SCENEGGIATURA DI “THE SOCIAL NETWORK” E LA NUOVA SERIE “NEWSROOM”, L’EVOLUZIONE ARTISTICA DI AARON SORKIN - IL “WALK AND TALK” E I DIALOGHI VELOCISSIMI, SUOI MARCHI DI FABBRICA, E L’AMORE PER IL RETROSCENA - SORKIN È MOLTO AMATO IN PATRIA MA ANCHE FORTEMENTE CRITICATO, SOPRATTUTTO PER L’USO DI COCAINA…

Aldo Grasso e Cecilia Penati per "la Lettura - Corriere della Sera"

«Elite is a good word, it means well above average» (élite è una bella parola, significa essere al di sopra della media). Il lavoro di Aaron Sorkin, uno dei più importanti showrunner della tv americana, si racchiude tutto in una missione segnata da un curioso paradosso: trasformare il medium più popolare, spesso considerato la sentina del trash e delle più basse pulsioni della società, in uno spazio discorsivo capace di rigenerare il concetto stesso di eccellenza, nella rappresentazione di un luogo dove le élite di un Paese (politiche, culturali, sociali) esprimano il meglio di sé.

La rivalutazione di questo concetto ha una genesi interessante: autunno 2008, il senatore dell'Illinois Barack Obama è il candidato democratico alle presidenziali americane, contrapposto al repubblicano John McCain. Intorno a Obama si raccolgono grandi speranze per un rinnovamento degli Stati Uniti e un nuovo «rinascimento» sociale, economico e culturale.

A Maureen Dowd, editorialista del «New York Times», viene un'idea: cosa consiglierebbe Jed Bartlet, l'ex presidente più amato degli Usa (nel telefilm The West Wing), al senatore democratico candidato alla Casa Bianca? Sorkin viene così chiamato a scrivere questa «intervista impossibile», diventata poi molto celebre e molto citata. Ne viene fuori un esaltante invito al futuro presidente democratico a non trasformare l'eccellenza in un fattore di distanza da un elettorato che lo percepisce come «the smarter in the class» (un saputello), ma nel principio ispiratore di tutto il suo operato.

Aaron Sorkin nasce a Manhattan (1961), da famiglia ebrea colta e benestante, padre avvocato, madre insegnante. Si laurea in Fine arts alla Syracuse University, e subito capisce che la sua vera vocazione è la scrittura. Ha spiegato al «New York Times»: «Quello che ho sempre desiderato era essere uno sceneggiatore teatrale. Ho finito il college e mi sono subito spostato a New York, e non mi è mai venuto in mente di poter andare a Los Angeles per cercare uno spazio in tv o nel cinema. Ho sempre e solo pensato al teatro».

Nel 1989, a 28 anni, scrive la sceneggiatura di un'opera teatrale per Broadway, A Few Good Men. Leggenda vuole che componga la prima bozza sui tovagliolini da cocktail, mentre lavora come barman al Palace Theatre. È la storia di un avvocato della marina militare chiamato a difendere di fronte alla corte marziale due marines accusati dell'omicidio di un soldato a Guantanamo.

Tutto il racconto si basa su un complesso ingranaggio di indizi che dovrebbero portare a ristabilire la verità, tra cospirazioni, ordini superiori e reputazioni da difendere a ogni costo, ma è l'eloquenza del giovane avvocato (cioè del suo ghostwriter Sorkin) il vero motore narrativo dell'opera. La pièce è un successo, la Columbia ne compra i diritti e chiama Sorkin a lavorare alla sceneggiatura del film (in italiano Codice d'onore), che esce nel 1992 con protagonisti Tom Cruise, Jack Nicholson e Demi Moore.

Dopo il successo di Codice d'onore, Sorkin continua a scrivere per il cinema, con il thriller Malice e soprattutto con la commedia romantica Il presidente. Una storia d'amore (1995), dove Michael Douglas è un giovane presidente Usa, da poco vedovo, che s'innamora dell'attivista Annette Bening. Il film non è solo una commedia romantica: oltre al racconto delle vicende personali dei protagonisti, filtra in controluce il desiderio di Sorkin di mettere in scena gli ingranaggi e i meccanismi della politica americana.

Il percorso che da Il presidente conduce al lavoro più perfetto e riuscito di Sorkin, The West Wing, passa attraverso Sports Night, il suo primo (e meno conosciuto) show televisivo, in onda su Abc dal 1998. Racconta il lavoro della redazione di un notiziario sportivo in un'immaginaria rete via cavo.

Nella serie, una sit-com «anomala» interpretata da Felicity Huffman (la «casalinga disperata» Lynette), Peter Krause (Six Feet Under) e Josh Charles (oggi in The Good Wife), sono già visibili tutte le cifre distintive della poetica di Sorkin (che scrive in prima persona quasi tutti gli episodi), quelle idiosincrasie e ripetizioni che vengono ormai definite sorkinismi, con un neologismo che allo stesso tempo critica Sorkin e ne sancisce la grandezza.

C'è il celebre walk and talk (letteralmente «camminare e parlare»), vero e proprio marchio di fabbrica ideato insieme al regista John Welles: due personaggi camminano nei corridoi della redazione intrattenendo un dialogo senza pause, con la macchina da presa che li pedina da vicino. Sorkin ha dichiarato: «La tv è un medium visivo, devi creare qualche genere di attrazione visuale. E quello è intrattenimento per i tuoi occhi». Ci sono dialoghi velocissimi e fitti di citazioni, ispirati ai ritmi frenetici della screwball comedy, ma anche fortemente influenzati dalle origini teatrali di Sorkin, con la parola sempre a guidare l'azione.

Ci sono personaggi che tra pregi (molti) e debolezze (poche) sono capaci di dare perfetta voce alla moral issue, la questione morale intorno a cui si articola ciascuna puntata. C'è poi l'ossessione tematica principale di Sorkin: mostrare il «dietro le quinte», il retroscena, in questo caso il funzionamento di un organismo dall'equilibrio complesso come una redazione, dove l'obiettivo condiviso è quello di migliorarsi giorno dopo giorno per realizzare ogni sera il miglior notiziario possibile.

Di nuovo, élite ed eccellenza. Neanche a dirlo, la serie è bellissima, perfetta incarnazione dell'idea che la tv di qualità non deve per forza rappresentare la noia, ma temi affascinanti come l'etica del lavoro, l'amicizia, l'amore. Sports Night chiude dopo sole due stagioni: ascolti troppo bassi, non soddisfacenti per un canale mainstream come Abc, in un destino che accomuna la sit-com a un'altra creatura di Sorkin, forse la più incompresa, Studio 60 on the Sunset Strip, in onda su Nbc nel 2006 e cancellato alla fine della prima stagione.

La serie è metalinguaggio allo stato puro, e racconta di un programma tv che ricorda molto da vicino il celebre Saturday Night Live, in profonda crisi creativa per colpa di un network che all'arte preferisce il denaro. Il compito di risollevarne le sorti viene affidato allo sceneggiatore Matt Albie (Matthew Perry) e al suo amico Danny Tripp (Bradley Whitford), tanto brillanti quanto tormentati dai fantasmi interiori che attraversano i migliori comici.

Studio 60 rimane il punto più dolente della carriera di Sorkin, quello che i critici più maligni ancora gli rinfacciano, senza capire la difficoltà di collocazione di un prodotto così raffinato su una rete generalista (la Nbc gli preferisce 30 Rock di Tina Fey, di analogo argomento).
Con Sports Night, Sorkin si afferma come uno dei più promettenti autori della tv americana, riprende in mano la sceneggiatura de Il presidente (la cui versione originale era lunghissima, 385 pagine contro una media di 120) e butta giù quella che è riconosciuta come una delle migliori serie dei primi anni Duemila, ricoperta di premi per sceneggiatura, regia, interpretazione: West Wing. Tutti gli uomini del presidente, Nbc, settembre 1999.

Che la comunicazione politica potesse diventare una trama avvincente era un bell'azzardo e tuttavia ogni sequenza della serie - tutta ambientata alla Casa Bianca, Ala Ovest appunto - si offre come un piccolo trattato sui meccanismi della politica: lo staff presidenziale è chiamato ogni volta ad affrontare i più complessi e urgenti problemi legati al governo della più grande potenza mondiale.

La serie è il manifesto ideale di tutti gli spin doctor: una miniera di soluzioni tecniche per chi si accinge ad apparire in video, di riflessioni sui complicati rapporti con la stampa, di spietati giudizi sui conduttori di talk show. È una lezione di ritmo, montaggio, recitazione, senso del racconto che riconcilia con la politica perché la toglie dal fango della realtà per riportarla nell'empireo degli ideali, tutti incarnati dal presidente Josiah Bartlet (Martin Sheen), fiero democratico liberal e cattolico del New Hampshire, colto (è PhD e premio Nobel per l'economia), dai modi spicci, poco disposto a cedere al compromesso.

Sorkin ha una personalità complessa, attraversata da molti demoni: nel 2001, all'apice del successo di West Wing (che però lui abbandona alla fine della quarta stagione), viene arrestato per possesso di droga. Dichiara che la cocaina lo aiuta a scrivere, gli dà energia e sicurezza: quando finisce in rehab (riabilitazione), la più grande paura, per fortuna infondata, è proprio quella di non riuscire più a scrivere.

Mike Nichols, che ha diretto il suo film La guerra di Charlie Wilson (2007), ne ha dato una bella definizione: «È sempre leggermente inquieto, e proprio nel momento in cui sei più felice di passare del tempo con lui, dirà, "Bene, devo andare"». Dopo Charlie Wilson c'è la sceneggiatura premio Oscar per The Social Network (2010), che prima ancora della storia di Mark Zuckerberg e del successo professionale di Facebook è il racconto shakespeariano di un imperscrutabile antieroe in felpa sportiva e ciabatte Adidas. Sorkin è oggi al lavoro sulla sceneggiatura del film dedicato alla vita di Steve Jobs.

Come tutti i grandi, Aaron Sorkin è autore molto amato, ma in questi anni non gli sono state risparmiate critiche anche feroci. C'è chi ha parlato di una sorta di «intelligenza artificiale» che tende a impadronirsi del suo lavoro, di dialoghi mai verosimili, dell'utilizzo forzato di archetipi narrativi per costruire personaggi sempre uguali (il grande vecchio, il giovane talento affamato, donne spesso sull'orlo di una crisi di nervi, eccetera).

Critiche che hanno investito in pieno il suo ultimo lavoro per la tv, The Newsroom, per il canale via cavo Hbo (non ancora trasmesso in Italia): la serie, di nuovo metalinguistica, è pervasa da un alto afflato ideale e racconta i retroscena di una redazione giornalistica che vuole trasformare l'informazione televisiva in uno strumento a servizio dell'elettorato e dunque della società americana, senza troppo curarsi dei vincoli legati agli ascolti. «We are the media elite», spiega a un certo punto l'anchorman Will McAvoy (Jeff Daniels) con una battuta che è già la più citata della serie.

È vero che il passaggio alla tv via cavo impone a Sorkin di lavorare su formati più lunghi della generalista (50/60 minuti a puntata) e che il suo stile molto complesso e fitto di dialoghi trova migliore dispiegamento nella struttura in tre atti delle serie generaliste, ma Newsroom rimane un prodotto di qualità eccellente. In una brillante intervista, Stephen Colbert gli ha posto la stessa domanda che, nel pilota di Newsroom, manda in crisi l'anchorman Will, costringendolo a ripensare a tutto il suo lavoro: perché gli Stati Uniti sono il miglior Paese nel mondo? «Perché vogliamo sempre fare meglio. Ci diamo un obiettivo e vogliamo sempre raggiungerlo migliorandoci», ha risposto Sorkin.

 

SORKINWEST WINGWEST WINGWEST WINGAARON SORKIN E STEVE JOBSWEST WINGSORKINFESTA BESO: FELICITY HUFFMAN E WILLIAM H. MACYMARTIN SHEEN E FIGLIO CHARLIEPROPOSITION 8: GEORGE CLOONEY E MARTIN SHEEN

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