
“MI SVEGLIARONO I COLPI DI PISTOLA E SUBITO VIDI LA MAMMA MORTA” – IL GIALLO DEL MOSTRO DI FIRENZE SECONDO LA SERIE DI STEFANO SOLLIMA (DAL 22 OTTOBRE SU NETLIX) E I RICORDI DELL’UNICO TESTIMONE - IL 21 AGOSTO 1968, QUANDO LA MADRE BARBARA LOCCI E IL SUO AMANTE, VENNERO UCCISI DAL MOSTRO, NATALINO MELE DORMIVA SUL SEDILE POSTERIORE DELLA GIULIETTA E VIDE TUTTO - LA PISTA SARDA, PACCIANI E I COMPAGNI DI MERENDE E L'ANALISI DEL DNA CHE HA RIVELATO CHE IL PADRE BIOLOGICO DI NATALINO NON ERA STEFANO MELE, MA GIOVANNI VINCI, FRATELLO MAGGIORE DI SALVATORE E FRANCESCO (AMANTI DI BARBARA LOCCI)… - VIDEO
Gianluca Monastra per “il Venerdì di Repubblica” - Estratti
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Era una notte di cinquantasette anni fa e i carabinieri cercavano una pistola che nessuno avrebbe più trovato. Una Beretta calibro 22 Long Rifle. La pistola del Mostro: sedici vittime tra il 1968 e il 1985, ragazze e ragazzi massacrati nelle colline intorno a Firenze, le stesse dipinte nei quadri del Rinascimento.
Quarant'anni dopo l'ultimo delitto, intorno a quella Giulietta orbita ora la miniserie Il Mostro, presentata a Venezia e dal 22 ottobre su Netflix.
Quattro episodi per orientarsi dentro una delle vicende più sanguinose e controverse della storia criminale non solo italiana. Stefano Sollima (Romanzo criminale, Gomorra, Suburra) l'ha prodotta, diretta e creata (insieme a Leonardo Fasoli) scegliendo non la prospettiva più nota – Pietro Pacciani e i compagni di merende, per intenderci – ma partendo da quella che fu la prova generale di un orrore successivo: dal più antico dei duplici omicidi, sottraendolo all'oblìo e rileggendolo attraverso l'ambiente in cui è maturato. Proprio come accadde agli inquirenti dell'epoca.
Quell'incubo rivissuto mille volte Facciamo un salto in avanti: anni Ottanta. Il Mostro uccide, terrorizza, sparisce, e i magistrati ipotizzano una chiave nascosta nel passato. La trovano confrontando dei bossoli miracolosamente conservati in vecchi faldoni e scoprono così il preludio ai loro giorni di sangue e macabri feticci.
E una data: 21 agosto 1968, notte senza luna, come quelle che da lì in poi saranno le preferite dal Mostro.
Campagna di Signa, pochi chilometri da Firenze, una giovane donna sposata e il suo amante – Barbara Locci e Antonio Lo Bianco – uccisi nella Giulietta sulla quale si erano appartati dopo una serata al cinema. Addormentato sul sedile posteriore, un bambino di sei anni: è Natalino, figlio di Barbara. L'unico testimone dei delitti del Mostro. La diciassettesima vittima, si potrebbe dire. Raccontò allora ai carabinieri: «Era buio, tutte le piante si muovevano, non c'era nessuno. Avevo tanta paura, per farmi coraggio ho detto le preghiere e cantato La tramontana».
Oggi Natalino Mele è un uomo magro dai capelli bianchi e lunghi sul collo, il volto attraversato da più ombre che rughe. Abita in una casa precaria – «senza due porte su tre e con i fili ciondoloni sul soffitto» ci racconta – dopo un'infanzia passata in collegio e anni vissuti per strada o in alloggi di fortuna – parola conosciuta di rado in vita sua.
Lo aiutano gli assistenti sociali e un prete da cui il pomeriggio ritira qualcosa da mangiare.
Ha appena smesso di piovere. Natalino avanza sul sentiero di ghiaia di un parco di periferia. Prima di sedersi asciuga la panchina con la manica della felpa. Preferisce starsene all'aperto, se deve ricordare: «Mi svegliarono i colpi di pistola e subito vidi la mamma morta…». Dopo gli spari, racconta la serie attraverso le carte dell'inchiesta, dal buio uscì un uomo che lo prese a cavalluccio sulle spalle.
Lo accompagnò davanti a una casa a due chilometri di distanza e, prima di sparire, suonò il campanello. Chi aprì la porta, si ritrovò davanti un bambino scalzo, illuminato da un lampione. Scuote la testa, Natalino.
«Eppure sono convinto di esserci arrivato da solo laggiù, mi rivedo ancora, fuori dall'auto, spaventato, che m'incammino verso l'unica luce davanti a me».
Un incubo rivissuto molte volte, nella testa e davanti a carabinieri e magistrati in interrogatori condotti senza le tutele psicologiche oggi garantite ai bambini: «Insistevano per sapere chi fosse quell'uomo: ma io niente, zero. Le stesse domande, lo stesso vuoto. Appena il Mostro ammazzava di nuovo, mi richiamavano in caserma, e mi facevano vedere le foto delle ragazze uccise, il sangue, tutto il resto».
(...) Si chiamava Stefano Mele il padre di Natalino, era un uomo fragile e silenzioso, vent'anni in più della moglie Barbara. Nelle ore successive alla scoperta dei corpi, sulla mano destra i carabinieri gli trovano tracce di nitrati provocati da spari. L'uomo ammette e nega, cambia versione, chiama in causa altri amanti della moglie, infine confessa: «Sono stato io».
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Ma è impreciso, maldestro, come se nascondesse qualcosa o qualcuno. E poi, manca la pistola: «L'ho gettata nel fosso». Nessuno la troverà mai. Malgrado tutto, viene processato, condannato, dimenticato. Fino appunto agli anni Ottanta, e a quella perizia sui proiettili che collega i delitti del Mostro al primo, quello di Signa.
Stefano Mele torna così alla ribalta insieme al fratellastro, al cognato e a due fratelli, sardi come lui: Salvatore e Francesco Vinci, altri amanti di Barbara.
Mostri perfetti, ma poi scagionati da nuovi delitti commessi con la stessa Beretta.
È la preda che si beffa dei cacciatori: state sbagliando, non mi avete preso.
La pista sarda, l'hanno chiamata. Pastori e contadini arrivati in Toscana negli anni Cinquanta e diventati operai, manovali, uomini arroccati in famiglie tra grumi di rancori e gelosie, regole arcaiche, donne da sottomettere.
Una pista sfumata in un proscioglimento generale e, per lunghi anni, rimasta sepolta in archivio.
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Così come l'ipotesi di un delitto di gruppo, oscurata dalla convinzione del killer solitario. Fino a quando non ricomparirà, ma molto più tardi, con altri protagonisti: Pietro Pacciani e i compagni di merende, altri Mostri imperfetti.
Nel frattempo, Stefano Mele è morto in ospizio, nel 1993 il corpo di Francesco Vinci è stato trovato bruciato nel bagaglio di una Volvo abbandonata nel bosco, e Salvatore Vinci è scomparso. C'è chi racconta di averlo visto all'aeroporto di Roma nei primi anni Novanta, poi più nulla.
Quel tempo, Sollima lo ha voluto rivivere immergendosi in una scrupolosa ricostruzione di fatti, ambienti, costumi. La calce sui pantaloni di Stefano, le gonne al ginocchio di Barbara, le auto, il cinema dell'ultima sera, proprio lì, a Signa, dove tutto iniziò. Sono stati scelti attori sardi, per preservare la realtà anche in un accento, interpreti senza un volto noto per non suggerire allo spettatore una gerarchia dei protagonisti. L'ordine dei ruoli ha senso quando la fine è nota. Ma in questa storia non ci sono certezze. Se non che, chi ha visto il Mostro, anche solo nelle proprie ossessioni, ne porterà per sempre il segno. Il destino dei parenti delle vittime e di generazioni di magistrati, investigatori.
Oggi li chiameremmo femminicidi
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«Abbiamo provato di tutto e alla fine c'è rimasta l'angoscia di non aver potuto dare una risposta alle tante famiglie disperate» ricorda oggi Silvia Della Monica, lunga carriera da magistrata e un'esperienza in Parlamento, inchieste di mafia e terrorismo, missioni all'estero con Giovanni Falcone, ma conosciuta soprattutto per le indagini sul Mostro.
Sua l'intuizione di rileggere i vecchi fascicoli fino a trovare il collegamento con il 1968, e poi la lettera anonima ricevuta nel 1985 dal maniaco, pochi giorni dopo l'ultimo duplice omicidio a Scopeti, in una piazzola vicina al podere dell'esilio di Machiavelli. Dentro la busta, un lembo del seno della donna francese uccisa insieme al fidanzato.
Racconta ora Della Monica: «Lavoravamo coi mezzi dell'epoca, strumenti artigianali, intercettazioni telefoniche macchinose, nessun esame del Dna né archivi digitali. A un certo punto, ci inventammo di circoscrivere la scena del delitto per evitare contaminazioni, metodo oggi considerato consuetudine.
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Nel giugno '82, trovammo il ragazzo della coppia aggredita agonizzante in macchina. Morì subito ma, d'accordo con la famiglia, annunciai ai giornalisti che era vivo e aveva rivelato qualcosa di importante. Una trappola. Ordinai subito di mettere sotto controllo i telefoni dell'ospedale più vicino e lì, in effetti, arrivò una chiamata: qualcuno che si spacciava per poliziotto e chiedeva notizie del ragazzo. Sarebbe stato fondamentale ascoltare quella voce. Ma i tempi tecnici per attivare il servizio furono troppo lunghi e non consentirono di registrarla».
Uno dei tanti rimpianti delle indagini. «Fu un'inchiesta difficile, dolorosa» continua la magistrata «ogni volta che prendevamo qualcuno, il Mostro tornava a colpire. Avevo la consapevolezza che fino a quando non avremmo sequestrato l'arma, non sarei stata sicura. Serviva cautela. Così non è andata e, a un certo punto, quando malgrado la pistola non fosse stata trovata due persone furono arrestate dal giudice istruttore, lasciai l'inchiesta». Pochi mesi dopo, la lettera anonima: «Me l'aspettavo un segnale, ci stava sfidando. Appena vidi la busta, la alzai verso la finestra.
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Controluce notai qualcosa di strano. "Portatela alla Scientifica" dissi. Avevo ragione». La firma del Mostro, una donna come bersaglio, ancora una volta. «Ho sempre creduto che fossero omicidi con al centro la figura femminile. Bastava esaminare la scena del crimine, l'uomo messo in disparte, la donna violata in un tragico crescendo di ferite, mutilazioni. Oggi li chiameremmo femminicidi».
Allora non c'era neanche una parola per catalogarli e l'orrore copriva ogni cosa.
In mezzo alla coltre di quel tempo, Sollima ha riconosciuto le deviazioni di una società contadina, profondamente arretrata, malgrado nelle grandi città soffiassero venti rivoluzionari. Un mondo in cui i maschi comandano, combinano matrimoni, ordinano silenzi, e alle donne non resta che obbedire. Barbara Locci ne è il simbolo: a suo modo ribelle e per questo giudicata. Punita.
«Sollima ha rappresentato in modo perfetto i rapporti attraversati da una visione patriarcale» concorda Della Monica.
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Franca Selvatici, punto di riferimento di tanti colleghi e per anni firma di giudiziaria di Repubblica, era una «cronista inesperta», ci dice, quando nell'estate 1981 le assegnarono il compito di seguire le mosse della procura dopo il duplice omicidio di Scandicci. «Chi ha ucciso nel '68 è l'autore dei delitti successivi.
Non credo al passaggio della pistola da una mano all'altra». Di quegli anni ricorda «il pianto della mamma di una delle ragazze uccise, e la caparbietà degli inquirenti». Un altro episodio però le è rimasto in mente: «Nel 1991 ero in vacanza in Corsica. In spiaggia lessi su un giornale francese che due fidanzati erano stati uccisi in macchina a Hyères, in Costa Azzurra. Decisi di andare a vedere. Non ne uscì niente, ma prima di rientrare in Italia, a colazione in hotel, mi misi a sfogliare l'elenco del telefono della zona.
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Trovai un Vinci di nome Sauveur, Salvatore in francese. Abitava in un paesino vicino a Saint Tropez. Neanche il fotografo mi volle accompagnare, aveva paura. Ci andai da sola e mi ritrovai di fronte un uomo dall'aria talmente confusa e trasandata che era impossibile confrontarlo alla foto di Salvatore Vinci che avevo in borsa. Disse di non parlare italiano e mi congedò in fretta. Il dubbio mi è rimasto, lo ammetto».
L'ennesima suggestione di una storia che non vuole finire mai. A luglio 2025, un'analisi del Dna delegata dalla procura di Firenze, ha rivelato che il padre biologico di Natalino non era Stefano Mele, ma Giovanni Vinci, fratello maggiore di Salvatore e Francesco.
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«Ecco, allora», si chiede oggi Natalino, «spiegatemelo voi: chi sono? Come mi chiamo?». Ancora domande rimaste aperte, come l'ultima, che da una vita si pone l'unico che il Mostro l'ha visto veramente: «Perché quella notte non ha ucciso anche me? Non mi ha notato, al buio, addormentato sul sedile. Oppure, forse, mi conosceva bene».
il pm paolo canessa indaga sul mostro di firenze
PIETRO PACCIANI
stefano sollima sul set di il mostro