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‘LA LA LAND’ È LA TERRA DOVE TUTTI CANTANO, LA PATRIA DEI SOGNATORI COME DAMIEN CHAZELLE, CHE HA 31 ANNI E E HA IMPIEGATO TUTTI I SEI ANNI PASSATI A LOS ANGELES PER REALIZZARE IL SUO SOGNO: RIFARE IL MUSICAL DI UNA VOLTA. NIENTE DERIVE POSTMODERNE, NIENTE ROCK, GLAM, HIP-HOP: SOLO VINTAGE - ‘È UNA DICHIARAZIONE D'AMORE PER HOLLYWOOD’. COSTATO 30 MILIONI (NE HA INCASSATI 173 FINORA)

Alberto Piccinini per ‘Il Venerdì - La Repubblica

 

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La La Land è la terra dove tutti cantano, come si faceva nei vecchi musical. È un modo di dire che indica la patria dei sognatori e degli artisti, della gente con la testa tra le nuvole («ma dove vivi, a La La Land?»). Non solo. La La Land è anche e soprattutto Los Angeles, città di stelle e ancora, ma per quanto?, città di sogni.

 

A La La Land Mia sogna di fare l'attrice ma serve cappuccini nel bar dei Warner Bros Studios, sotto la stessa finestra che si vede nel film Casablanca. E Sebastian sogna di aprire un club dove si suona soltanto il jazz di una volta: siede su uno sgabello che dicono sia appartenuto a Hoagy Carmichael, sbarca il lunario facendo il piano bar nei ristoranti e a volte suona nelle feste con una cover band di hit degli anni Ottanta. In una di queste feste incontra Mia. La storia può incominciare.

la la land di damien chazelle con emma stone e ryan goslingla la land di damien chazelle con emma stone e ryan gosling

 

«Sognare conviene, qualunque sia questa convenienza. Non è neppure necessario che i sogni si avverino. Se cerchi un messaggio del film, ecco è questo». Il regista Damien Chazelle ha 31 anni e ha impiegato tutti i sei anni passati fin qui a Los Angeles per realizzare il suo sogno: rifare il musical di una volta. Niente derive postmoderne, niente rock, glam, hip-hop. Solo vintage praticamente monacale: La La Land (nelle sale italiane dal 26 gennaio) è girato in pellicola con le vecchie lenti Panavision, i colori tirati fino a esplodere, set in location come piaceva a Jacques Demy, il regista di Les Parapluies de Cherbourg, soltanto canzoni e musiche originali.

 

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Chazelle si è laureato nel 2007 in cinema ad Harvard girando come tesi un musical a bassissimo costo su un trombettista jazz di Boston e una cameriera ballerina ( Guy and Madeline on a Park Bench ), in bianco e nero. Da allora usa canzoni e musiche del suo compagno di corso Justin Hurwitz, che è il suo collaboratore più stretto. Dopo il successo di critica e i premi piovuti sul piccolo dramma da camera sado-jazzistico Whiplash lo scorso anno, ha infine trovato qualcun altro disposto a dargli retta. La La Land è stato girato in due mesi, con un budget di 30 milioni di dollari.

 

«Il problema era riprodurre il vecchio sistema integrato della fabbrica hollywoodiana» ci spiega Chazelle poco dopo la prima del film, lo scorso settembre alla Mostra internazionale del cinema di Venezia, decisamente sollevato dall'accoglienza ricevuta.

 

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«La ragione per cui oggi non si fanno più musical è che tutto il lavoro deve essere coordinato, ogni elemento deve dialogare con l'altro: il set, i colori, le canzoni, la sceneggiatura. E non c'è più tempo. Perciò noi abbiamo affittato un vecchio residence nella valle e ci siamo andati a vivere tutti assieme: gli attori e i costumisti, il direttore della fotografia e i coreografi. Una volta alla settimana ci ritrovavamo tutti assieme a guardare vecchi musical come Singin' in the Rain e Les Parapluies de Cherbourg, prima di tornare al lavoro».

 

Con un paradosso finale: pur contando su un budget più che accettabile e sulla presenza di due superstar come Ryan Gosling e Emma Stone, rimettere in moto oggi un genere mitico e abbandonato come il musical per Damien Chazelle è un gesto d'Autore. Quasi più vicino a una performance di teatro d'avanguardia che al cinema industriale.

 

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La La Land inizia su un tratto di free-way sopraelevata, sotto il sole di agosto e con una fila di macchine ferme nel traffico, finché dalla musica delle autoradio nasce una grande coreografia collettiva di steadycam, dolly e ballerini, a tinte latine, sui tetti, sui lunotti e i parafanghi delle auto. Ha ricordato a questo proposito il critico del New Yorker che con le stesse premesse (una mattina di traffico infernale sulla freeway) Michael Douglas arrivava a conclusioni del tutto opposte nel suo Giorno di ordinaria follia .

 

Erano parecchi anni fa, ma non è che nel frattempo il mondo si sia meglio attrezzato per i sognatori. Anzi. Figurarsi per i ballerini. Il regista ha avuto 48 ore di tempo per provare e girare la scena nella freeway chiusa per manutenzione. Ferragosto, temperatura ben oltre i quaranta gradi.

 

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Quando lo racconta ancora gli brillano gli occhi: «Se guardi lo sfondo e quel che succede nella strada sottosostante, vedrai il traffico vero che scorre» spiega sorridendo. «Questa tensione tra vero e artificiale mi sembrava davvero potente. Certo, una volta avrebbero rifatto tutto in studio». Ma non Jacques Demy!, lo interrompo (la scena tra l'altro è una lontana citazione dell'inizio di Les Demoiselles de Rochefort).

 

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«No, Jacques Demy no!» si illumina lui. «E questo è il motivo per cui lo amo. E pensavo a Demy anche nell'uso del colore. Proprio come faceva lui in Cherbourg , ho fatto ridipingere tutte le macchine usate nella scena della free-way: è il cinema classico che ci insegna a raccontare le storie con il colore».

 

Uno che si mette in testa di raccontare la vita dei mille sognatori e artisti disposti a sbarcare a Los Angeles non può davvero essere cinico. «È una dichiarazione d'amore per Hollywood» dice ancora Chazelle del suo film «o almeno per quello che Hollywood potrebbe essere: un mondo dove l'arte è importante, dove un sogno non si giudica per quanto è realistico.

 

Che il sogno si realizzi oppure no sognare è una cosa bellissima e così vale per l'arte, abbia successo oppure no». D'altra parte Chazelle non ha neppure l'aria dell'hipster oltranzista alla Wes Anderson. È un enfant prodige in odore di Oscar, un Autore scovato da una Hollywood in un'austera scuola di cinema appassionata di vecchi film francesi, un "ragazzo" che semmai alla critica più radicale potrà sembrare troppo timido, retrò, educato.

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Riflette ancora: «Nei vecchi musical alla fine di un numero, quando Fred e Ginger smettono di cantare e ballare, c'è sempre un momento di silenzio. È come se guardandosi in viso cercassero di affrontare la transizione alla vita vera. Non puoi vivere per sempre in un musical, e anche questo era parte dell'idea di La La Land: si possono prendere delle vecchie forme di espressione ma devi pomparci dentro la vita vera, con i suoi alti e i suoi bassi». Ecco perché a un certo punto, nella musica squillante di Hurwitz, dentro una storia d'amore con sfondo di mitologie hollywoodiane, si insinua la dissonanza che fa di La La Land una storia estremamente moderna.

 

LA LA LAND DAMIEN CHAZELLELA LA LAND DAMIEN CHAZELLE

Perché Mia e Seb realizzeranno "in qualche modo" i loro sogni, ma non nella maniera o nel tempo in cui avrebbe fatto loro comodo. L'amore e il successo non hanno mai gli stessi tempi, e la vita si incaricherà di rovinare la prodigiosa sincronia di quei primi balletti. C'è una piccola differenza tra le vita vera e quella sognata, La La Land finisce bene, ma non si può dire che abbia esattamente un happy end.

 

«Parli di dissonanza, per me è ok» commenta Chazelle. «Io pensavo a un accordo incerto, che combinasse il maggiore e il minore. Devo citare ancora Jacques Demy, perché questo fanno i suoi film: la vita vera è piena di malinconia e c'è qualcosa di bello anche nella malinconia». Jacques Demy, il colore, la pellicola. L'obsolescenza del cinema e la triste vecchiaia del jazz. E di tutte «le forme d'arte» aggiunge il regista «alle quali un giorno la società ha detto: oh, fatevi da parte, non abbiamo più bisogno di voi».

 

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L'elenco delle fisse nerd da studente di cinema di Chazelle è lungo e piuttosto divertente. Mentre La La Land, con sette nomination ai Golden Globe, minaccia di diventare uno dei film più premiati dell'anno Chazelle giura che per un po' il musical e il jazz li lascerà stare.

 

«Per ora basta così. Alla fine» aggiunge «l'unica cosa che so è che voglio ancora fare i film che io stesso vorrei vedere. Non voglio perdere tempo a chiedermi che cosa ne penserà la gente, se questo o quello avrà successo, se andrà bene per la mia carriera. Da La La Land ho imparato che ogni volta che hai la possibilità di fare un film è un miracolo e perciò devi cercare di fare qualcosa che ti appassioni, anche perché adesso davvero non so se e quando ne farò un altro».

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