LOU REED, IO PIANGO – AMARCORD DI PAOLONE ZACCAGNINI SUL GRANDE POETA/MUSICISTA DI NEW YORK, TRA CONCERTI SBULLONATI A ROMA E INCONTRI CASALINGHI A NEW YORK A PARLARE DI SCLEROSI MULTIPLA

Paolo Zaccagnini per Dagospia - http://modestproposalz.blogspot.it

A Robe', Lou Reed e' a Londra. "E bravo, vallo a intervista' e poi mi mandi il
pezzo". Gia' fatto, non si puo', l'intervista gliela ha fatta il Times.
Percepisco telepaticamente la nota espressione romanesca, Roberto e' un
siggnorre, con due g e due erre, e mi incalza "ma allora dimmi qualche cosa,
scrivi di quella volta, te ricordi quella volta...". Sì, Roberto, ricordo,
ragioner D'Agostino, il ragionier Zaccagnini ricorda. E te lo racconta come
vuoi. Incredibile che ora sono di nuovo redattore e lui e' direttore. E che
direttore. Basta bloggare. Andiamo a lavorare. Come i sette nani.

La prima volta che vidi mister Reed, io lo chiamo rispettosamente cosi', fu proprio con
Roberto e la prima moglie, Tina. Erano gli inizi degli anni '70. Il Palaeur era
ancora il Palaeur, vale a dire da sempre sepolcro del suono perche'
l'architetto Pierluigi Nervi lo avevo costruito come palazzetto dello sport per
le Olimpiadi del 1960 non certo per concerti rock, e la sinistra extraparlamentare lanciava slogan, e altro ancora, sul fatto che la musica si sentiva ma non si doveva pagare.

Follia pura di pseudoestremisti. Ogni concerto finiva in battaglia. Figuriamoci
quello di Lou Reed. Fumogeni, spari, vetrate rotte, opposti estremismi. Mi
ritrovo sul palco, allora facevo politica attiva come si diceva, e mi scalmano
un pochino. Poi con Roberto e Tina, dotata di zatteroni stratosferici, mi do' alla
fuga.

La scampammo e ci infilammo nella fedele 500 blu di Roberto. Io dietro, per la verita', sembravo un pezzo di tonno, o ventresca sott'olio dietro all'allora possente guidatore Roberto, io da allora sono sempre stato Paolone. Ecco, quello il mio primo incontro con mister Reed: con Francis Vincent Zappa e George Ivan Morrison, la persona piu' preziosa che abbia
incontrato nel mio lavoro.

Lou ha la fama del caratterialmente peggiore di tutti, Morrison lo batte alla lunga, ed e' forse per questo che siamo diventati amici. Bastian contrari sempre. Amici veri, non da palco. Non da fotografia, anche se alcune che ho con lui sono indimenticabili e a me carissime. L'artista
lo conoscete, mi auguro altrimenti o smettete di leggere qui oppure correte a comprare i suoi cd - scaricare e' il duro e nobile lavoro degli scaricatori - imparate anche subito qualche suo brano, ma l'uomo certo no.

Parole zero, emozioni miriadi, pensieri irraggiungibili. Possibile? Certo. Parola di fan.
Ecco, io sono il perfetto rock'nd'roll animal, estenuante, micidiale, letale,
terrificante assolo di Steve Hunter che mi ha cambiato la vita ("Rock'n'roll"), e credo anche a
qualcun altro. Ma mai una parola da mister Reed, lui ha sempre fatto parlare la
sua chitarra. Lui ha segnato un'epoca della cultura statunitense. Come Jack
Kerouac, Neal Cassidy, Timothy Leary, Mario Savio e il suo Free Speech
Moviment, l'hippie Abbie Hoffmann, Angela Davis, l'amico Andy Warhol...

No, cercatele pure le parole di mister Reed, cercatele in quest'era di facile,
inutile, dannosa intelligenza tecnologica globalizzata, vedete un po' di
trovarle. Nella vita si deve fare una cosa, e solo quella. Lui ne fa due
insieme, poeta e musicista. E poi il Tai Chin, l'arte marziale/ filosofia/modo
di vivere cinese che lo ha aiutato moltissimo. E che mi fa venire un episodio
che ancora mi fa ridere. Ma tanto.

Per lavoro, credo, vado a New York, citta' che non amo perche' preferisco le piccole fragole alla Grande Mela, dico al mio posto di lavoro di aggiungere qualche giorno di ferie arretrate a quelle lavorative e vado. Faccio diligentemente il mio lavoro poi, vincendo la mia
timidezza terribile, chiamo mister Reed. Che, con la sua voce dai toni bassi e
rochi, mi dice di andare a casa, che conosco ed e' al Village.

Il suo amato Greenwich Village. Casa, ma che casa. Arrivo, abbracci, baci, mi presenta il
suo simpatico, temibile maestro di Tai Chin, mi fa vedere e toccare le spade
che usano per parte dell'allenamento poi mi dice che vanno di la' ad
allenarsi. "Posso fumare?" "Of course, my friend, as much as you want" -
- mi dice, mi abbraccia di nuovo, il grande orientale, sono sempre
timoroso che mi colpisca violentemente al volto con una delle sue estremita'
dall'aspetto molto poco rassicurante, si inchina e si ritirano a battagliare,
Per finta.

Colpi, botti, clangore di metallo, urla belluine: tutto normale. Mi guardo intorno e scelgo una bellissima poltrona davanti all'enorme finestra che da' sul fiume Hudson ed e' una delle pareti dell'appartamento, su due piani. Nevica, c'e' il fiume, la stupenda casa e accogliente e calda. Devo aspettare, quale miglior posto per' gettarsi in un bel libro poliziesco? Accendo il mio
sigaro toscano Garibaldi e comincio a leggere.

Lettura avvincente, e un eroe dei due mondi tira l'altro. Sempre immerso e perso nella fitta nebbia venutasi a creare dal mio fumare, scorgo due persone che tossiscono a ripetizione
dandosi tante sonore botte, le note "pacchere" sulla schiena. Mi alzo dalla poltrona, mi faccio strada nella nebbia creatasi, chiedo a mister Reed, il grande cinese accanto a lui mi guarda storto sconquassato dai colpi di tosse, se si sente bene, se posso aiutarlo, se posso fare qualcosa per loro e lui, con quel suo sguardo sempre apparentemente ironico e il suo sorrido sardonico, mi guarda bene in faccia, mi scruta e poi mi dice "hai fumato, eh?". Grande.

Grande mister Reed. Lou. Impagabile. Che mi ha trapanato il cuore in un freddo giorno nel dicembre 1999, l'anno in cui mi e' stata diagnosticata la sclerosi multipla. Non, scusate il termine, le "piattole". O le creste di pennuto. La sclerosi multipla. Altre ferie arretrate, nel '94 avevo accumulato 350 giorni. E una settimana a New York. Per parlare, se possibile, con lui.

Lo chiamo, gli spiego perche' sono li', mi dice di andare subito a casa sua. Devo confessare
che una diagnosi del genere destabilizza assai, io resto con i piedi saldamente a terra e vado avanti, fino e come e' possibile. Arrivo, mi abbraccia, ci mettiamo seduti nel suo studio, dove troneggia una poltrona fatta come la sella di una grossissima moto Harley-Davidson, mi guarda negli occhi e comincia a parlare. Per piu' di due ore. Sempre fissandomi negli occhi.

Di Victoria Williams che si e' rifugiata in Arizona dove clima e' ideale per malati come noi. Gli ricordo che li' in Arizona e' morto, bruciato vivo nel camper che aveva peso fuoco con lui costretto su una sedia a rotelle. Abbassa gli occhi, mi stringe le mani. Tace. I suoi occhi nei miei. Ricaccio indietro le lacrime, nel caso lo facessero imbufalire, ascolto commosso e scosso e poi vado via. Sollevato.

Il messaggio e' stato chiarissimo, malato grave, gravissimo. Ma vivo. Ci vuole assai poco a rendere felice un essere umano, io, farlo ancora sentire partecipe della vita. Due occhi fermi, una stretta di mano. Un cuore leggendario, uno di quelli di una sua canzone. Il suo.

 

 

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