MASSIMO FINI RICORDA I SUOI “DIALOGHI” CON GIORGIO BOCCA: “LO SPAZIO DEL PRIM’ATTORE SPETTAVA A LUI, IO AVEVO LA PARTE DEL CRETINO DEI FRATELLI DE REGE” - DAL RAPPORTO COL DENARO TRAEVA FORMA DI RASSICURAZIONE E CONFERMA TANGIBILE DEL SUO SUCCESSO, COSÌ COME LA FASCINAZIONE PER I RICCHI: “PERCHÉ CI VAI, GIORGIO?”. “MA, SAI, I PIRELLI, I BRION...”. “MA TU SEI MOLTO PIÙ IMPORTANTE DI QUALSIASI BRION O PIRELLI O CRESPI” - L'ULTIMA VOLTA CHE L'HO INCONTRATO GLI HO CHIESTO: “HAI 90 ANNI, CHE PENSI DELLA TUA VITA?”. “CHE, TUTTO CONSIDERATO MI È ANDATA BENE”…

Massimo Fini per "Il Fatto Quotidiano"

Ho frequentato abitualmente Giorgio Bocca nei primi anni Ottanta. Umberto Brunetti, direttore di Prima Comunicazione, si era inventato una rubrica, ‘Dialoghi sull'informazione', affidando il ruolo del protagonista a Bocca che era allora, assieme a Montanelli e Biagi, uno dei principi del giornalismo italiano. Ci voleva però uno sparring-partner.

Bocca io l'avevo conosciuto nei primi mesi di Repubblica e, nonostante il quarto di secolo che ci divideva, fra noi era nata una simpatia istintiva. Così mi aveva indicato a Brunetti come spalla. Naturalmente, nella coppia, lo spazio del prim'attore spettava a lui, io avevo la parte del cretino dei fratelli De Rege, dovevo porgergli la battuta, però ci mettevo anche qualcosa di mio e i ‘Dialoghi' ebbero un notevole successo. Un piccolo imprenditore, Cariaggi, più noto peraltro per essere il marito di Lara Saint Paul, ci propose di riprendere la formula in una di quelle radio locali che allora stavano nascendo come funghi.

Arrivavo la mattina presto a casa di Bocca, in via Bagutta 12, e lo trovavo spesso indaffarato a mettere insieme dei ritagli pescati chissà dove. "Cosa stai facendo, Giorgio?". "Una voce di enciclopedia". "Hai tempo da perdere per queste cose?". "Ma, sai, mi danno centomila lire" e calcava la voce sul ‘centomila'.

Anche se eravamo nei primi Ottanta una cifra del genere, non era gran cosa, tantomeno per uno come lui che prendeva uno stipendio da Repubblica e un altro dall'Espresso. Non era propriamente avidità o taccagneria, piuttosto un sacro rispetto per il denaro. Non dimenticava di essere figlio della maestrina di Cuneo e questo rapporto col denaro, come forma di rassicurazione e conferma tangibile del suo successo, lo seguirà per tutta la vita.

Quando uscivamo dagli studi della radio lui si infilava in una misteriosa porticina. Io dovevo attenderlo fuori. Ci rimaneva cinque minuti, poi saliva sulla mia macchina e lo riportavo a casa. Una volta, mentre guidavo, non resistendo più alla curiosità, gli chiesi: "Che vai a fare in quel bugigattolo?". "Prendo i soldi, subito, cash. Con quella gente non c'è mai da fidarsi".

In un'altra occasione eravamo a cena a casa sua. Lui era a capotavola, io sedevo alla sua destra. Uno dei suoi figli si era sposato da poco. A un certo punto avvicinò il suo viso al mio e coprendosi a metà la bocca con la mano per non farsi sentire dalla Giacomoni, la moglie, mi sussurrò: "Sai, questo matrimonio mi è costato 10 milioni". E calcò la voce sui ‘milioni'. In questi casi c'era in lui qualcosa di infantile, quasi di birichino, come se l'avesse fatta grossa a sua madre, che muoveva a tenerezza.

Una delle ultime volte che sono stato da lui mi raccontò che era andato a trovare Pericoli che si era ritirato in Umbria. Naturalmente non guidava più e nemmeno Silvia. Avevano dovuto prendere una macchina con autista. "Sai, io non sono abituato a queste cifre...". Ma questa volta il tono era amaro, come si sentisse tagliato fuori dal mondo. "Il telefono non squilla più", aggiunse poco dopo.

In questa storia del rapporto col denaro sta anche, insieme con una buona dose di masochismo, la fascinazione che provava per i ricchi. Lo lusingava essere invitato a cena a casa dei Pirelli, dei Brion, della Crespi. Ma si annoiava a morte. Inoltre, com'è noto, la mensa dei ricchi, con la scusa della dieta, è sempre molto magra mentre a lui, da buon contadino che aveva nella memoria tempi di vacche magre, piaceva mangiare e bere (ma una volta Leopoldo Pirelli fu scoperto in cucina che si strafogava, di nascosto, un pollo, mentre ai suoi ospiti aveva fatto servire delle insalatine insaporite da qualche salsa). "Perché ci vai, Giorgio?". "Ma, sai, i Pirelli, i Brion...". "Ma tu sei molto più importante di qualsiasi Brion o Pirelli o Crespi".

Giorgio Bocca non si è mai reso conto appieno del ruolo che ha avuto per più di mezzo secolo nella vita intellettuale italiana. Psicologicamente era rimasto un provinciale, come ha scritto in uno dei suoi libri più belli (l'altro è la splendida e coraggiosa biografia di Togliatti). Il culmine del masochismo lo raggiungeva quando accettava l'invito che Giulia Maria Crespi faceva ogni anno ad alcuni importanti personaggi nella sua tenuta della Zelata, sul Ticino. La sadica ‘zarina' costringeva gli uomini, quasi tutti in età, a una regata agonistica sul fiume. Lui ne tornava distrutto e furioso. "Perché ci vai, Giorgio?". "Ma, sai, la Crespi...".

Quando facevamo i ‘Dialoghi sull'informazione' si teneva piuttosto cauto su Repubblica e l'Espresso, i giornali per cui lavorava. Ma una volta, non potendone più, si lasciò andare a delle dure critiche su Zanetti, il direttore dell'Espresso. Io riportai tutto, diligentemente. Alle 6 di mattina di qualche giorno dopo squillò il telefono di casa mia. "Ma che cazzo hai scritto?". "Ma,veramente, quello che mi hai detto tu" balbettai insonnolito " e non a tavola, ma davanti al registratore mentre facevamo i ‘Dialoghi'. Eppoi è la verità". "Se tu alla tua età non hai ancora capito che non si può sempre scrivere la verità, sei un cretino".

E buttò giù la cornetta. Quella frase, detta da uno dei più coraggiosi giornalisti italiani, mi colpì. Il fatto era che Zanetti, per punizione, quella settimana gli aveva fatto saltare la rubrica. Ma mi perdonò quasi subito e i ‘Dialoghi' continuarono regolarmente.

Bocca era un uomo ruvido, di poche parole, sbrigativo. In questo un cuneese purosangue. Ma la ruvidezza, come spesso accade, mascherava un'intima timidezza e anche una fragilità emotiva che contrastava con la sua figura di uomo solido, anche fisicamente (al Giorno quando c'era da fare un servizio faticoso, Rozzoni diceva: "Mandiamoci Bocca, che è robusto").

Un capodanno ero ospite dei Bocca a LaSalle, sopra Courmayeur, assieme alla mia giovane moglie. Verso mezzanotte arrivò un'allegra comitiva non si sa bene invitata da chi. Fra i nuovi arrivati c'era una donna sulla quarantina, sciapa, che diceva di essere un'editrice. Chiese al padrone di casa che lavoro facesse. Bocca, lì per lì, si incazzò di brutto. "Ma come, vieni a casa mia, dici di essere un'editrice e non sai nemmeno chi sono".

Non mi ricordo cosa rispose la cretina. Giorgio si alzò e sparì nelle stanze interne. Dopo un po' andai a cercarlo. Si stava ubriacando di whisky. Non aveva retto che una squinzia qualsiasi, una stronzetta di cui poteva tranquillamente impiparsi, non lo avesse riconosciuto. Ci mettemmo a giocare a biliardo.

Quando ci capitava di camminare insieme per le strade intorno a via Bagutta, Bocca, ogni tanto, abbaiava. "Che fai, Giorgio?". "Scarico la tensione, me lo ha consigliato il medico". Non l'ho mai visto veramente disteso. "La mattina, quando mi alzo, mi prende l'angoscia: penso che non riuscirò a fare tutto quello che devo fare. Ma poi quando arriva la sera mi accorgo di avere fatto tutto".

Con Montanelli si poteva parlare di tutto. Era un uomo completo. Con Biagi solo di giornalismo, era chiuso nella dimensione del cronista, in un modo quasi disumano. Bocca riluttava molto ad aprire la botola esistenziale, ma se lo si stuzzicava - e io lo facevo spesso, perché a me questo solo interessa - non si tirava indietro. Però sempre nel suo modo concreto, pragmatico, realista, privo di qualsiasi sentimentalismo. Un giorno mi disse: "Sai, ho capito che dopo una certa età se vuoi l'affetto devi pagartelo".

Intendeva proprio affetto, non il sesso (di questo mi aveva detto, tempo addietro: "Alla fine la fatica diventa maggiore del piacere e lasci perdere"). Io che avevo allora quarant'anni e stavo con una donna bella e affascinante (‘la morona' come la chiamava lui, affettuosamente) inorridivo. Mi sembrava un atteggiamento troppo cinico.

Ora che ho l'età che lui aveva allora so che aveva ragione. In realtà Bocca non era un cinico, era, al contrario, come ha scritto lui stesso di sé, in uno degli ultimi articoli, mettendosi al confronto con Berlusconi, "un cuor tenero pronto ai cedimenti". Ma aveva il coraggio di guardare in faccia le cose per quelle che sono. Che è stata anche la sua fortuna di giornalista.

Le mie tesi antimoderniste non le prendeva sul serio. "Tu sei un poeta, un pazzo. Poche balle, qui c'è da competere col Giappone" (allora il ‘pericolo giallo' veniva dal Sol Levante).

Negli ultimi anni, se posso permettermi di dirlo, le sue posizioni si erano avvicinate parecchio alle mie. Ma non mi nominava mai. E io gli scrivevo dei bigliettini risentiti. Ma quando pubblicai ‘Ragazzo. Storia di una vecchiaia' scrisse sull'Espresso: "Una lettura affascinante. Il ‘ragazzo' mi spiega con fraterna sincerità cosa sono oggi". Sulla pagina era rimasto lucido. Nella rubrica che manteneva sull'Espresso, ‘L'antitaliano', raramente perdeva un colpo.

Dietro l'opinionista, l'intellettuale, si sentiva sempre l'esperienza del grande inviato. Con le dita anchilosate dall'artrite batteva a fatica sui tasti del computer che aveva imparato a usare con grande sforzo, ma a differenza di Montanelli o di Biagi o di Feltri, aveva imparato, spinto dal suo doverismo masochista, ma anche dall'umiltà del grande professionista.

Sul lavoro non ci ha mai mollato. Ma fisicamente, negli ultimi anni, era invece crollato. Bocca ‘il robusto' era diventato un omino mingherlino, fragilissimo, che si sarebbe potuto spazzar via con un soffio. Credo che non gli abbia giovato il trasferimento dalla storica abitazione di via Bagutta a via De Grassi. In via Bagutta poteva ancora uscire, entrare in qualche negozio, avere una parvenza di vita sociale. La De Grassi è una lunga strada privata dove ci sono solo lussuose abitazioni. Un tragitto ormai improponibile per lui. Era diventato un recluso.

L'ultima volta che l'ho incontrato è stato all'inizio della scorsa estate, a colazione a casa sua, con Silvia Giacomoni. Era vigile, attento, ma si stancava presto e preferiva far parlare noi. Così la conversazione l'abbiamo sostenuta soprattutto Silvia ed io che un tempo ci detestavamo cordialmente. Ma la vecchiaia ci aveva ammorbiditi entrambi.

Un segno della senilità di Bocca era che disprezzava in blocco il giornalismo italiano di oggi. "Possibile, Giorgio, che non ti piaccia nessuno dei nostri colleghi?". "No". "Nemmeno Travaglio?". "Non si può scrivere un pezzo al giorno, non è professionale". Allora ho spostato il discorso sul passato. "E di Montanelli che pensi?". "Montanelli ed io siamo stati spesso accomunati, ma in realtà non c'entriamo niente l'uno con l'altro. Ciò che gli invidio è il giro di frase elegante, la battuta, ma non penso che fosse un uomo profondo".

In quel pomeriggio luminoso, troppo luminoso, d'inizio estate, tutti e tre ci rendevamo perfettamente conto, anche per quel sole spavaldo fatto per altre età, di essere dei sopravvissuti. Bocca si è alzato per congedarsi. Gli ho chiesto: "Giorgio, hai 90 anni, che pensi della tua vita?". "Penso che, tutto considerato mi è andata bene" è stata la risposta.

 

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