1. “TAKE A WALK ON THE WILD SIDE AND THE COLOURED GIRLS GO, DOO DOO DOO, DOO…” 2. UNA VITA NEL NOME DEL ROCK, E INSIEME DELLA POESIA, DELL'ARTE, ALLA RICERCA DI UN SUONO E DI UN'ANIMA. SEMPRE TORMENTATA, CON OGNI TANTO QUALCHE "GIORNO PERFETTO" 3. PAOLO ZACCAGNINI: “HA SEGNATO UN'EPOCA DELLA CULTURA STATUNITENSE. COME GINSBERG, JACK KEROUAC, NEAL CASSIDY, TIMOTHY LEARY, ANGELA DAVIS, ANDY WARHOL” 4. LO SCORSO APRILE A CLEVELAND AVEVA RICEVUTO UN FEGATO NUOVO, CON UN TRAPIANTO. L'ADOLESCENZA CON IL TRAUMA DELL'ELETTROSHOCK, PER "CURARE" L’OMOSESSUALITÀ

LOU REED, FULL CONCERT - http://www.youtube.com/watch?v=CH-H8ybmZCI

1. TAKE A WALK ON THE WILD SIDE
Repubblica.it

Una vita nel nome del rock, e insieme della poesia, dell'arte, della magia e oggi anche della perdita, come il titolo di un suo album. E' scomparso a 71 anni Lou Reed, chitarra e voce dei Velvet Underground, e poi anima solista e solitaria, non sempre, perennemente alla ricerca di un suono e di un'anima. Sempre tormentata, con ogni tanto qualche "giorno perfetto".

Una vita a cantare e suonare New York, le ombre della città, il lato selvaggio che poteva essere quello di un marciapiede buio e quello di un'esistenza scura. Una vita difficile da subito quella di Lewis Allan Reed, nato a Brooklyn e cresciuto a Long Island. Lo scorso aprile a Cleveland aveva ricevuto un fegato nuovo, con un trapianto. Ma già l'adolescenza è particolarmente difficile, con il trauma dell'elettroshock, utilizzato per "curare" una tendenza bisessuale.

Un'esperienza destinata a segnarlo per sempre, che non reprime e forse aiuta lo sbocciare della sua ricerca creativa, attraverso la scrittura, la regia, la voce in radio in una sua trasmissione. E soprattutto la musica, e soprattutto il jazz, le note blu sempre tendenti al nero.

Una ricerca letteraria realizzata attraverso l'elettricità della chitarra e il droning della voce, che non è quasi mai un cantato, e meno che mai un parlato. Una sospensione sonora e poetica quella del primo album dei Velvet Underground, che con pochi accordi dipinge tutta la tensione intellettuale e la linfa vitale di una New York come sempre indescrivibile.

LOU REED, IO PIANGO - AMARCORD DI PAOLONE ZACCAGNINI SUL GRANDE POETA/MUSICISTA DI NEW YORK, TRA CONCERTI SBULLONATI A ROMA E INCONTRI CASALINGHI A NEW YORK A PARLARE DI SCLEROSI MULTIPLA
Paolo Zaccagnini per Dagospia - http://modestproposalz.blogspot.it - articolo del 6 settembre 2013

A Robe', Lou Reed e' a Londra. "E bravo, vallo a intervista' e poi mi mandi il 
pezzo". Gia' fatto, non si puo', l'intervista gliela ha fatta il Times. 
Percepisco telepaticamente la nota espressione romanesca, Roberto e' un 
siggnorre, con due g e due erre, e mi incalza "ma allora dimmi qualche cosa, 
scrivi di quella volta, te ricordi quella volta...". Sì, Roberto, ricordo, 
ragioner D'Agostino, il ragionier Zaccagnini ricorda. E te lo racconta come 
vuoi. Incredibile che ora sono di nuovo redattore e lui e' direttore. E che 
direttore. Basta bloggare. Andiamo a lavorare. Come i sette nani.

La prima volta che vidi mister Reed, io lo chiamo rispettosamente cosi', fu proprio con 
Roberto e la prima moglie, Tina. Erano gli inizi degli anni '70. Il Palaeur era 
ancora il Palaeur, vale a dire da sempre sepolcro del suono perche' 
l'architetto Pierluigi Nervi lo avevo costruito come palazzetto dello sport per 
le Olimpiadi del 1960 non certo per concerti rock, e la sinistra extraparlamentare lanciava slogan, e altro ancora, sul fatto che la musica si sentiva ma non si doveva pagare.

Follia pura di pseudoestremisti. Ogni concerto finiva in battaglia. Figuriamoci 
quello di Lou Reed. Fumogeni, spari, vetrate rotte, opposti estremismi. Mi 
ritrovo sul palco, allora facevo politica attiva come si diceva, e mi scalmano 
un pochino. Poi con Roberto e Tina, dotata di zatteroni stratosferici, mi do' alla 
fuga.

La scampammo e ci infilammo nella fedele 500 blu di Roberto. Io dietro, per la verita', sembravo un pezzo di tonno, o ventresca sott'olio dietro all'allora possente guidatore Roberto, io da allora sono sempre stato Paolone. Ecco, quello il mio primo incontro con mister Reed: con Francis Vincent Zappa e George Ivan Morrison, la persona piu' preziosa che abbia 
incontrato nel mio lavoro.

Lou ha la fama del caratterialmente peggiore di tutti, Morrison lo batte alla lunga, ed e' forse per questo che siamo diventati amici. Bastian contrari sempre. Amici veri, non da palco. Non da fotografia, anche se alcune che ho con lui sono indimenticabili e a me carissime. L'artista 
lo conoscete, mi auguro altrimenti o smettete di leggere qui oppure correte a comprare i suoi cd - scaricare e' il duro e nobile lavoro degli scaricatori - imparate anche subito qualche suo brano, ma l'uomo certo no.

Parole zero, emozioni miriadi, pensieri irraggiungibili. Possibile? Certo. Parola di fan. Ecco, io sono il perfetto rock'nd'roll animal, estenuante, micidiale, letale,
terrificante assolo di Steve Hunter che mi ha cambiato la vita ("Rock'n'roll"), e credo anche a 
qualcun altro. Ma mai una parola da mister Reed, lui ha sempre fatto parlare la sua chitarra. Lui ha segnato un'epoca della cultura statunitense. Come Jack 
Kerouac, Neal Cassidy, Timothy Leary, Mario Savio e il suo Free Speech 
Moviment, l'hippie Abbie Hoffmann, Angela Davis, l'amico Andy Warhol...

No, cercatele pure le parole di mister Reed, cercatele in quest'era di facile, 
inutile, dannosa intelligenza tecnologica globalizzata, vedete un po' di 
trovarle. Nella vita si deve fare una cosa, e solo quella. Lui ne fa due 
insieme, poeta e musicista. E poi il Tai Chin, l'arte marziale/ filosofia/modo 
di vivere cinese che lo ha aiutato moltissimo. E che mi fa venire un episodio 
che ancora mi fa ridere. Ma tanto.

Per lavoro, credo, vado a New York, citta' che non amo perche' preferisco le piccole fragole alla Grande Mela, dico al mio posto di lavoro di aggiungere qualche giorno di ferie arretrate a quelle lavorative e vado. Faccio diligentemente il mio lavoro poi, vincendo la mia 
timidezza terribile, chiamo mister Reed. Che, con la sua voce dai toni bassi e 
rochi, mi dice di andare a casa, che conosco ed e' al Village.

Il suo amato Greenwich Village. Casa, ma che casa. Arrivo, abbracci, baci, mi presenta il 
suo simpatico, temibile maestro di Tai Chin, mi fa vedere e toccare le spade 
che usano per parte dell'allenamento poi mi dice che vanno di la' ad 
allenarsi. "Posso fumare?" "Of course, my friend, as much as you want" - 
- mi dice, mi abbraccia di nuovo, il grande orientale, sono sempre 
timoroso che mi colpisca violentemente al volto con una delle sue estremita' 
dall'aspetto molto poco rassicurante, si inchina e si ritirano a battagliare, 
Per finta.

Colpi, botti, clangore di metallo, urla belluine: tutto normale. Mi guardo intorno e scelgo una bellissima poltrona davanti all'enorme finestra che da' sul fiume Hudson ed e' una delle pareti dell'appartamento, su due piani. Nevica, c'e' il fiume, la stupenda casa e accogliente e calda. Devo aspettare, quale miglior posto per' gettarsi in un bel libro poliziesco? Accendo il mio 
sigaro toscano Garibaldi e comincio a leggere.

Lettura avvincente, e un eroe dei due mondi tira l'altro. Sempre immerso e perso nella fitta nebbia venutasi a creare dal mio fumare, scorgo due persone che tossiscono a ripetizione 
dandosi tante sonore botte, le note "pacchere" sulla schiena. Mi alzo dalla poltrona, mi faccio strada nella nebbia creatasi, chiedo a mister Reed, il grande cinese accanto a lui mi guarda storto sconquassato dai colpi di tosse, se si sente bene, se posso aiutarlo, se posso fare qualcosa per loro e lui, con quel suo sguardo sempre apparentemente ironico e il suo sorrido sardonico, mi guarda bene in faccia, mi scruta e poi mi dice "hai fumato, eh?". Grande.

Grande mister Reed. Lou. Impagabile. Che mi ha trapanato il cuore in un freddo giorno nel dicembre 1999, l'anno in cui mi e' stata diagnosticata la sclerosi multipla. Non, scusate il termine, le "piattole". O le creste di pennuto. La sclerosi multipla. Altre ferie arretrate, nel '94 avevo accumulato 350 giorni. E una settimana a New York. Per parlare, se possibile, con lui.

Lo chiamo, gli spiego perche' sono li', mi dice di andare subito a casa sua. Devo confessare 
che una diagnosi del genere destabilizza assai, io resto con i piedi saldamente a terra e vado avanti, fino e come e' possibile. Arrivo, mi abbraccia, ci mettiamo seduti nel suo studio, dove troneggia una poltrona fatta come la sella di una grossissima moto Harley-Davidson, mi guarda negli occhi e comincia a parlare. Per piu' di due ore. Sempre fissandomi negli occhi.

Di Victoria Williams che si e' rifugiata in Arizona dove clima e' ideale per malati come noi. Gli ricordo che li' in Arizona e' morto, bruciato vivo nel camper che aveva peso fuoco con lui costretto su una sedia a rotelle. Abbassa gli occhi, mi stringe le mani. Tace. I suoi occhi nei miei. Ricaccio indietro le lacrime, nel caso lo facessero imbufalire, ascolto commosso e scosso e poi vado via. Sollevato.

Il messaggio e' stato chiarissimo, malato grave, gravissimo. Ma vivo. Ci vuole assai poco a rendere felice un essere umano, io, farlo ancora sentire partecipe della vita. Due occhi fermi, una stretta di mano. Un cuore leggendario, uno di quelli di una sua canzone. Il suo.

 

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