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"E’ VISSUTO DA TEPPISTA E DA TEPPISTA È MORTO" - POESIE, AMORI E SUICIDI DEL COMPAGNO, ANZI DEL CITTADINO MAJAKOVSKIJ, CHE LA FECE FINITA CON UN COLPO DI PISTOLA AL CUORE, "A 35 ANNI UNO È VECCHIO!"

Stefano Di Michele per “il Foglio

 

Resuscitami! / Dammi un cuore. / E sangue / fino alle vene più sottili”. Così Vladimir Majakovskij – e “Di questo” sono i versi. “Resuscitami – Voglio la vita non vissuta”. Dissero del poema i critici ortodossi (come il puro più puro, c’è sempre l’ortodosso più ortodosso: alla fine della catena è quello che preme il grilletto) che era “poema da sacrestano… romanzo sentimentale… lo annaffieranno di lacrime le ginnasiali…”.

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Il compagno Majakovskij – anzi, “il cittadino Majakovskij” (e qui ce n’è abbastanza, per capire che la rivalutata parola “cittadino”, adesso sparsa a piene mani tra Parlamento e piazza, è roba d’ogni regime più che di ogni democrazia) – pur rivoluzionario e futurista e cantore leninista, purtroppo, deplorevolmente, verso “tenerezze feudali” inclinava: cuori e dolori e stelle (mica solo quella che il popolo guida e come gregge custodisce da sopra il Cremino, ma stelle senza nient’altro che il cielo: “

 

Ascoltate! / Se in cielo accendono le stelle / vuol dire che qualcuno / ne ha bisogno?”) e lacrime e cuccioli e Cucciolo (“io sono lo stesso tuo Cucciolo di sempre”, all’amata tormentata tormentosa Lili Brik, e come un cagnolino dalle grandi orecchie si disegnava) e gatto e micia e fazzoletti utili in amore e in vita, più che in morte. Vattene! Torna! Addio! Perdonami! Spavento! Amami! Ti amo! Odiami! Fuggo! Ritorno! “No? Tutti mi dicono ‘no’! Solo ‘no’! Ovunque ‘no’!”.

 

Bruciò presto – e per intero, il compagno cittadino poeta Majakovskij, ché “Volodja ha la vin triste” (sempre Lili), e diceva così: “Mi suicido! A trentacinque anni uno è vecchio! Vivrò fino a trent’anni. Poi basta”. Non mentì e non fu di parola, troppo presto e troppo tardi: si tirò un colpo di rivoltella al cuore, il cuore che più della testa sa vivere e sa morire, a quasi trentasette anni. Il 14 aprile 1930, al n. 3 di Passaggio Lubjanskij.

 

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Con addosso una camicia gialla (poi gliene metteranno una azzurra) e al collo un farfallino nero. “Sulla parte sinistra del torace c’è un foro di forma irregolare, diametro di circa 1 centimetro, intorno al quale la camicia è sporca di sangue per una superficie di circa 10 centimetri di diametro. La circonferenza del foro presenta segni di bruciature”.

 

Disse Boris Pasternak: “Posava apertamente, ma per l’ansia e la febbrilità segrete su quella posa c’erano gocce di sudore gelido” – e cos’altro meglio un suicidio può spiegare? Quando Esenin s’era ucciso cinque anni prima – “sogno la rabbia e l’umido delle sere di aprile” – e pendeva appeso a una cinghia dai tubi del riscaldamento centrale, scrisse (gli scrisse) Majakovskij: “Ve ne siete andato, / come si dice, / all’altro mondo. / Vuoto. / Volate, / fendendo le stelle”.

 

Prendono il calco del volto e delle sue mani: così, forse solo per appesantire il volo tra le stelle. Scomodo, doveva stare, nel suo “angoletto di socialismo”, come diceva un personaggio del suo ultimo spettacolo (di grande insuccesso): “Banja”. Un ispettore semialfabeta, tal Kurmelev, stende il verbale. “Il medico Agamalov constata la morte del ‘cittadino Majakovskij’”.

 

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Cittadino – sempre. “Ma perché le offese? / Sono soltanto un verso, io, / soltanto anima”. Nei regimi, chissà com’è, ma così è, così i poeti migliori muoiono. In quello sovietico esattamente così. Così Esenin, così Majakovskij, così tra poco più di undici anni la grandissima Marina Cvetaeva. O perseguitati, come Anna Achmatova. E assassinati nel gulag, come Osip Mandel’s– “Irreparabile è questa notte”.

 

Poi arriverà la dimenticanza – o lo sprofondare sotto montagne di marmo e bronzo e ferro, quando il criminale si traveste da devoto e molesta le altrui tombe, che forse è peggio. (Al funerale di Majakovskij s’avanza un’orrida corona portata da due operai, “una pesante corona fatta di grossi martelli, volani, bulloni, dadi: ‘Per il poeta di ferro, una corona di ferro!’, è scritto sul nastro” – come se un proiettile potesse poi trapassare il cuore di ferro di un poeta di ferro: se fossero di ferro, cuore e poeta). Siccome il giornale si chiamava Pravda (Verità), pubblicava quasi solo bugie.

 

Più la foga e la gloria rivoluzionaria passavano, più saliva “il limo di una nuova burocrazia” (avrebbe detto così Kafka), più ogni verità ufficiale era (in verità) una bugia. Il 15 aprile la Pravda ha in prima pagina lo sciopero delle industrie a Bradford, lo sciopero dei ferrovieri in India, editoriale sulla gestione delle imprese industriali. A pag. 2 si richiede attenzione per il funzionamento dei trasporti. A pag. 3 si lodano il mais e la soia (lode al compagno mais, lode alla compagna soia!). A pag. 4 faccende del Komsomol.

 

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Pag. 5: “E’ morto Vladimir Majakovskij”, e “il suicidio è stato causato da motivi di natura privata che nulla hanno a che vedere con l’attività pubblica e letteraria del poeta”. Mosca mormora, Mosca maligna, Mosca sparge sale sul foro vicino al capezzolo sinistro. Aveva la sifilide, il cittadino Majakovskij. Macchè, era depresso. Calo del talento. Insuccesso. Il partito. La gelosia. Non era più lo stesso.

 

“E’ vissuto da teppista e da teppista è morto”. Poeta sopravvalutato, ecco cos’era il cittadino suicida Vladimir Vladimirovic… “Stupida, pusillanime” morte, la sua – dice il bolscevico di ferro (a lui, a lui, la corona orrenda di metallo!). Meno di tre mesi prima del suicidio, esce il sesto tomo della “Piccola Enciclopedia Sovietica”, alla “sub voce” “Majakovskij, Vladimir” così si legge – così il poeta lesse: “La rivolta di M. è anarchica e individualista, piccolo borghese nella sostanza… Dopo la rivoluzione M. ne è divenuto compagno di strada. Ma anche dopo l’Ottobre a M. è rimasta estranea la visione del mondo proletario come sistema organizzato di idee, sentimenti”. Potrebbe essere un bellissimo elogio, in un mondo di logica. Condanna, nel mondo illogico che ogni rivoluzione crea.

 

“Il cuore invoca lo sparo, / la gola – il rasoio… / In sconnesso delirio sul demone / si gonfia la mia angoscia. / Mi segue, / mi attira verso l’acqua, verso / il pendio del tetto”. Serena Vitale ha scritto un gran bel libro sulla morte di Majakovskij: “Il defunto odiava i pettegolezzi” (Adelphi). C’è tutto – tutto quello letto finora, tutto quello che ancora dovete leggere. Ogni fatto di questa pagina. C’è magari troppo. Ogni voce, ogni vento, ogni risentimento. Ogni ombra, ogni sospetto, ogni incertezza. Un suicidio, certo.

 

Un delitto, chissà – così per primo pensò (pensò?) l’ispettore semianalfabeta. Una Mauser puntata verso il capezzolo sinistro. Che poi diventa una Browning. Numeri che non tornano. Nuvoletta di fumo impossibile. Una scala. La testa del poeta verso il divano. La testa del poeta verso la porta. Amici, vicini, spie, sbirri, curiosi. Spie, soprattutto. Delatori, sempre. Forse la rubò Ezov(nano assassino, il carnefice primario di Stalin, prima di diventare lui stesso carne per il macello sovietico), la pistola di Majakovskij. Forse le teneva nascosta, lì tra le pellicce e i film porno e i bossoli delle pallottole con cui erano stati assassinati (aveva fatto assassinare) Kamenev, Zinov’ev, Smirnov – sadico e feticista.

 

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Chissà, tutto si scompone e si ricompone: righe di verbale, diari, memorie svanite negli anni e nei furori rivoluzionari. Serena Vitale fa un lavoro paziente, emozionante – tracce bruciate nel secolo scorso, polvere confusa con cenere. Mette insieme gli elementi, i rapporti delle spie e le lacrime del poeta, i suoi amori assurdi e i suoi tremori (occulti), donne e amici e vicini. Toglie ombre dai vecchi archivi, ricostruisce il passo degli inquirenti, le bugie schiacciate e occultate sotto i monumenti. “Non incolpate nessuno della mia morte e, per piacere, non fate pettegolezzi. Il defunto li odiava”.

 

Il 15 aprile 1930 la Pravda pubblica il “testamento” di Majakovskij: “A tutti”. Una prosa sul ghiaccio sottile delle sberleffo. “Mamma, sorelle e compagni, perdonatemi – non è questo il modo (non lo consiglio ad altri) ma non ho vie d’uscita. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è composta da Lilja Brik, mia madre, le mie sorelle, e Veronika Vitol’dovna Polonskaja. Se per loro organizzerai una vita tollerabile – grazie”.

 

E poi, e ancora, e a sigillo: “Come si dice – l’incidente è chiuso, la barca dell’amore si è schiantata contro l’esistenza quotidiana. Io e la vita siamo pari e a nulla serve l’elenco dei reciproci dolori, disastri, offese. Buona permanenza al mondo. Vladimir Majakovskij. 12/4/30” – più qualche altra ironica richiesta a chi resta. Come in certi versi – tutto torna: i versi, appunto, e il loro mutarsi nel reale. Scriveva Majakovskij, anni prima: “Come si dice l’incidente è chiuso. / La barca dell’amore si è schiantata / io e te siamo pari…”.

 

Previsto. Scritto. Annunciato. La Pravda – bugiarda e tetra e temibile – pubblica. “Vuol dire che di nuovo / scorato / prenderò il cuore / umido di lacrime / e lo porterò / come un cane porta / nella cuccia / la zampa schiacciata dal treno”. Arrivò in taxi, Majakovskij, la mattina che con una pallottola si squarciò il suo cuore in fiamme. Il taxi n. 191, in Passaggio Lubjanskij – appartamento 12, “una kommunalka (sei stanze, quattro famiglie, un poeta), entra – prima porta a sinistra”. Lo studio, undici metri, la sua “stanza-barchetta”: così la chiamava.

 

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E’ insieme a Veronika Polonskaja, l’ultimo suo amore, di così tanti e incendiari e a volte patetici e sempre dolorosi e struggenti amori – primo tra tutti, e sempre e per sempre, Lili Brik (Liliònok e Lilik e Lilicka e Lilicek e Licik e Lisik e Lju…): “Ti bacio, tuo fino alla coda. Cucciolo”) , e il curioso ménage à trois dove entra pure suo marito Osip. Veronica, per tutti Nora, è un’attrice – non si toglie, quella mattina, neppure il soprabito e il cappellino a cloche, ché alle 10,30 iniziano le prove di “La nostra giovinezza” presso il Teatro dell’Arte – il già venerabile MchAT.

 

Si sono conosciuti un anno prima – “Circa un anno fa… all’ippodromo di Mosca, il cittadino Osip Brik mi presentò il cittadino Majakovskij”: cittadino, sempre cittadino – mefitica parola che scortica. Litigano, si insultano, si lasciano, si riprendono. Nora è sposata, Vladimir vuole che abbandoni suo marito e vada a vivere con lui. Una sera, a teatro, la presentò come sua moglie. Burla. Azzardo. Sogno. Ha steso un elenco (punto primo, “in cosa consiste il mio dolore”) quella mattina – come una casalinga che fa la liste della spesa, fece così il gran poeta – di cose che vuol discutere con lei.

 

“La causa del suo suicidio mi è ignota, ma bisogna ritenere che sia stata soprattutto il mio rifiuto di ricambiare il suo amore, anche come l’insuccesso di ‘Banja’…”. Arriva un fattorino, deve consegnare dei libri – 21 rubli ha pagato il poeta per avere “i primi volumi delle Opere di Marx-Engels, Lenin, Plechanov, dell’Enciclopedia Sovietica…”, c’è da soffocare ancor di più, adesso, dentro la piccola “stanza-barchetta” che adesso s’inabissa. Promesse, rinvii – aria, aria, aria. “Io ero seduta sul divano. Si mise per terra davanti a me e scoppiò in lacrime. Gli tolsi il cappotto e il cappello…”.

Vladimir Majakovskij con Lili Brik a Yalta nel 1926Vladimir Majakovskij con Lili Brik a Yalta nel 1926

 

Lei sta per uscire. Lui si punta la pistola al cuore. Tre centimetri sopra il capezzolo sinistro, come si è detto. “Majakovskij è morto!” – si comincerà a urlare, da una scala all’altra. Da una strada a quella successiva. Eccoli: sbirri, spie, curiosi. “Tra le gambe del cadavere c’è un revolver Mauser calibro 7,65 (lo ha prelevato il compagno Gendin dell’OGPU), n. 312045. Nell’arma non è stata rinvenuta nessuna pallottola. A sinistra del cadavere, alla distanza di un metro dal tronco, c’è il bossolo vuoto di una Mauser…”.

 

A duecento metri dalla “stanza-barchetta” del poeta, al n. 2 di Bol’saja Lubjanka, dal 1919 è insediata la Ceka – per “combattere la controrivoluzione e il sabotaggio”: l’occhio supremo del terrore che s’avanza. Quasi alla stessa ora, Lili e Osip Brik sono ad Amsterdam. A “Cucciolo” spediscono una cartolina, la foto di un giardino: “Che splendidi fiori crescono da queste parti! Veri tappeti di tulipani, giacinti, narcisi”. I primi fiori per Vladimir Majakovskij morto.

 

“Piango per Volodja e per me – è la stessa cosa” (diario di Lili Brik, 7 giugno). “Egregi / compagni posteri! / Frugando / nella merda impietrita / dei nostri giorni, / studiandone le tenebre, / forse / chiederete / anche di me”. Scrive Serena Vitale, tra le sue pagine appassionate: “Intorno alla salma, come mosche carnaie, ronzano chiacchiere, dicerie, congetture”.

 

La bara è corta, troppo corta. Piccola. Il grosso corpo di Majakovskij non riesce a starci, “fuoriescono le scarpe J. M. Weston, numero 46, comprate a Parigi”. Il cadavere è gonfio. Altri, “con quanta forza proletaria ha in corpo”, preme per chiudere. Gran folla, gran ressa, poco proletario ordine, più di centomila dietro l’indisciplinato morto. Drappi neri sui balconi di Mosca. “Majakovskij non riesce nemmeno a morire senza fare casino”.

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Al crematorio – un’ex chiesa, ché le chiese mica servono più, meglio far subito polvere dei morti – qualcuno dirà di aver visto ardere i suoi capelli. Il suo cervello sarà fatto a fette presso il GIM (Istituto Statale del Cervello, già il nome: tra il surreale e l’orrendo). “Con l’ausilio del microtomo – uno strumento che ricorda la ghigliottina – viene suddiviso in fettine” (Pravda, 17 gennaio 1934). Hanno di queste pretese, i regimi: quasi che la scienza (scienza quella?) potesse, sbranando un corpo, spiegarne il genio. “Né le esangui fettine del parencefalo di Majakovskij fecero la benché minima luce sul mistero della poesia…”, segnala Serena Vitale. “Il suicidio è inammissibile lì dove solo lo Stato ha licenza di eliminare i propri sudditi. Equivale a disubbidienza, ammutinamento, diserzione”.

 

“Sordamente. / L’universo dorme, / poggiando sulla zampa / l’orecchio enorme con zecche di stelle”. Insopportabile. Geniale. Fragile. Spaventato. Pieno di sé.”Non tanto presto verrete a intonare / il de profundis del mio talento”. Pieno di sé, poi, a ragione. Debole. Ambiguo. Brutti slogan: “Partito e Lenin sono gemelli”, “Mangia ananassi, ingolla maionese! / Il tuo ultimo giorno s’appressa, borghese!”. Forte. Ironico. Poeta. Poeta. Poeta. “Imbronciato, indignato”. Sfottente. Da tenere a mente (come insegnamento) persino qualche sua felicissima battuta.

 

1. “Majakovskij, la vostra ultima poesia è troppo lunga!”. “E voi tagliatela. Con quello che avanza potreste farvi un nome…”.

LeninLenin

2. “Ma davvero pensate che siamo tutti idioti?”. “Perché ‘tutti’? Per ora ne vedo uno solo”. 3. “Avete detto che tra i georgiani vi sentite georgiano e russo tra i russi. E chi vi sentite di essere tra i cretini?”. “Mi ci trovo per la prima volta”.

 

4. “Un ometto grasso rimprovera Majakovskij: ‘Compagno, non è giusto. Un poeta di genio e trattate così male il pubblico… E poi sempre ‘io’, ‘io’, ‘io’. Lo sapete bene che dal sublime al ridicolo non c’è che un passo’. Majakovskij, misurando con gli occhi la distanza tra sé e l’ometto: ‘Anche meno, credo’”.

5. “Davanti allo specchio: ‘Non sono abbastanza bello per permettermi di non rasarmi ogni giorno’”.

 

6. “Perché non vi iscrivete al Partito?”. “E se mi mandano alla raccolta del grano?”. “La vostra mano, prego, / toccate qui, il torace. / sentite? / Non batte, il cuore, geme”. Poi a Stalin, cinque anni dopo, avendone ammazzato tanti – e senz’altro i grandissimi – venne necessità (o vaghezza) di un poeta. “L’Amico-dei-poeti è a corto di poeti”. Disponendo quasi solo di cadaveri, si orientò così su quello di Majakovskij: “Fate tutto quello che abbiamo trascurato di fare”.

 

Loulou Picasso Pravda bozzetto Un regard moderne n acrilico e collage su carta x Loulou Picasso Pravda bozzetto Un regard moderne n acrilico e collage su carta x

Ezov, fedele macellaio e fedele architetto, si mise all’opera. “E Majakovskij, allergico a ogni monumento (‘un po’ di dinamite e – in polvere!’), verrà imbalsamato in tonnellate di ghisa, bronzo, marmo. Darà il proprio nome a villaggi, strade, piazze, parchi, stazioni della metropolitana, biblioteche, teatri, scuole, navi, carri armati, kolchoz, scuole, addirittura a un picco montano del Pamir”.

 

Cose dei vivi, simili scemenze. Dei vivi cattivi, in particolare. Ah, si fosse stati piuttosto vivi ancora, per un ultimo sberleffo! Ma né l’Uomo d’Acciaio né il suo Nano di Sangue erano molto spiritosi, però (così che Mandel’stam ne morì). “Majakovskij non ‘mise alla prova’ il destino. Quanto alla mano – la destra o la sinistra – con cui si sparò… Si sparò al cuore. Questo conta” – scrive Serena Vitale. E poi, che fa? A che serve? Cosa toglie o aggiunge, questo o quello? “Io, / come voi, / ho l’eternità di scorta”.

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