GRATTA LO SCRITTORE E TROVI UN CAZZONE - ESCE “FIGURACCE”, RACCONTI BY PICCOLO, TREVI, STANCANELLI, GIORDANO ETC... - AMMANITI: “IL NOSTRO MESTIERE VA COSPARSO DI FIGURE DI MERDA, COME UN WURSTEL DI SENAPE”
Elisabetta Ambrosi per “il Fatto Quotidiano”
Povero Giacinto Pullone, l’immaginario poeta farlocco arrivato alla fama grazie al ricorso a libretti stampati nella tipografia di un cugino e usati per concorrere a premi da lui stesso inventati insieme alle pittoresche giurie.
È costui, l’uomo dalla “ragnatela di rapporti con una piccola schiera di frustrati e folli di provincia”, l’antieroe che viene messo alla berlina - “un cazzone ambulante vestito da professore” - in una raccolta di racconti di alcuni scrittori italiani, “Figuracce”, uscita ieri per Einaudi. Dove Pullone compare, unica, vera tragica figura del libro (insieme a una burina dalle tette pushappate che rovina un convivio di scrittori a Courmayeur dove siede Diego De Silva) nel racconto di Emanuele Trevi.
Quest’ultimo, salito a bordo di una fantomatica Crociera degli artisti organizzata proprio dal Pullone, e ritrovatosi a parlare di Conrad in mezzo a salumi e culatelli, decide in un breve lampo di coscienza “che in futuro sarei stato più attento a questi inviti” - come poteva d’altronde il suo libro fare mostra di sé insieme a Ricette Zodiacali e al Grande Libro dell’età dell’oro del Napoli? - ma solo fino al prossimo invito, o premio, s’intende.
Perché sotto sotto, il grande, anzi l’unico, dilemma, che affligge gli autori della raccolta riunitisi l’estate scorsa a Campo dei Fiori in vista del libro - oltre a Trevi e De Silva, Niccolò Ammaniti, Paolo Giordano, Elena Stancanelli, Francesco Piccolo, Christian Raimo, Antonio Pascale - sta tutto qui: non tanto raccontare le peggiori figuracce della loro carriera, visto che, nota l’ex autore cannibale che cura il volume, “il mestiere dello scrittore per essere tale deve essere cosparso, come un wurstel di senape, di figure di merda”.
E neanche mostrare al grande pubblico il loro volto umano, strizzargli l’occhiolino, io sono gaffeur come lo sei tu che mi compri, visto che - sempre Ammaniti - “la stessa vita è uno slalom di figure di merda”.
No, il vero dramma di questi dilaniati maitre à penser di un’epoca in cui impera, loro malgrado, una cultura del selfie e dell’autotolleranza spinta e in cui lo scrittore, sempre loro malgrado, non è più “un orso che vive in una grotta e dove quello che conta non sono i suoi scritti”, è là dove meno te l’aspetti: provare ad accettare fino in fondo il Pullone che è in loro, accogliere senza opporre resistenza, come Maria di fronte all’Annunciazione, il crollo verticale dell’etica a favore della partecipazione tv, nonostante i loro immani sforzi nel reintrodurre un pensiero verticale (d’altronde faceva bene Heidegger, nota Trevi, ad “andare alle parate e alle inaugurazioni, lo andavano a prendere in macchina”).
E allora più che una raccolta di racconti sulle piccole grezze dei grandi, sugli scivoloni degli immortali, il libro diventa uno specchio della nostra letteratura: non solo “un mondo parallelo fatto di treni, aerei, alberghi, file di sedie, microfoni, pubblici più o meno folti”, dove la scrittura del libro appare ormai quasi uno sgradevole antefatto.
Ma soprattutto una sorta di autoconfessionale collettivo in cui i romanzi diventano industriali flussi di coscienza delle paure più grandi - come quella del fallimento, unita al fastidioso retropensiero di aver scritto una cagata - insieme ai più grandi desideri: essere proprio come tutti, magari scrivere proprio come tutti e scoprire però che, a differenza di tutti, si viene celebrati, si viene intervistati, si vincono i premi letterari.
Di qui il sentimento di “gratitudine immensa” di cui parla Piccolo, quella sensazione di “essere scampati a un tumore, a un incidente aereo”.
A questo punto non c’è più nulla da temere: anche i grandi traumi infantili, come i brufoli del neovincitore dello Strega, sono superati, e con loro il fantasma di non meritare nulla di tutto ciò che poi è accaduto. Si possono allora liberare le viscere, come accade alla Stancanelli a “Uno Mattina”, o a Christian Raimo, aiutato a liberare il water intasato da uno stronzo gigante dallo stesso David Foster Wallace; e si può, perché no, anche immedesimarsi con i grandi o addirittura viversi oltre, perché Conrad esagera a usare tutti quei termini tecnici, in fondo “cos’è un trinchetto e chi l’ha mai usato?” (Trevi).
Proprio vero che l’Italia è il paese dei miracoli. Dove ci si può ritrovare finalmente liberi non solo dall’unica vergogna che uno scrittore dovrebbe avere, scrivere un brutto libro, ma anche, come insegna il libro stregato, da quella di essere l’opposto di ciò che si voleva essere, come scrive Giordano: “Sono un uomo volgare e disprezzabile a bordo di un Suv e mi sento vergognosamente felice. E allora?”.