RAZZISMO SOTTOSOPRA - SPIKE LEE ALLA GUERRA CONTRO L’IMBORGHESIMENTO DI BROOKLYN: “FOTTUTI BIANCHI, ANDATEVENE DAL MIO QUARTIERE!”

Vittorio Zucconi per "la Repubblica"

Come i nativi americani che videro sbarcare Cristoforo Colombo - anzi, quel «fottuto di Colombo», dice lui - così Spike Lee, il regista di Malcolm X, vede con orrore l'invasione dell'uomo bianco nella propria isola di cemento, Brooklyn. «Questi fottuti con i loro fottuti cagnolini d lusso arrivano e si credono padroni della fottuta città senza rispetto per la sua storia e per le sue tradizioni. Sti fottuti».

Con la furia dirompente e il linguaggio molto "hip hop" della sua personalità, accesi dalla nostalgia per un tempo perduto che ormai nella mezza età avanzata - ha 56 anni - e nel successo idealizza, il più celebrato autore cinematografico di sangue afro si è lanciato nella denuncia proprio di quell'inarrestabile metabolismo urbano che ha fatto di New York, New York. E che ha permesso a lui di muovere dalla casetta di Fort Greene, uno dei più aspri quartieri di Brooklyn allora, al lusso più esclusivo dell'East Side di Manhattan.

Il paradosso di rimpiangere tempi e luoghi dai quali si cerca di fuggire non ha fermato Spike in un discorso alla New York University. Il diritto al mugugno, e a lamentare tutto, è uno dei massimi e più sacri privilegi di tutti gli abitanti dei cinque "borghi" della città - Manhattan, Staten Island, Bronx, Queens e Brooklyn - e Lee ne ha fatto ampio uso, scandalizzando persino chi lo aveva invitato, il professor Micheal Moss, afroamericano anche lui e insegnante di urbanistica e di pianificazione in quel college. «Brooklyn è diventata via via più attraente e questo porta inevitabilmente a un flusso di nuovi abitanti diversi dai vecchi residenti, dunque a uno scontro di abitudini, di atteggiamento, di cultura», tenta di osservare lo studioso.

Ma la razionale, accademica spiegazione dell'urbanista non ha fermato l'arringa di Spike Lee contro quegli "hipster", quei fighetti alla moda, ovviamente, ma non solamente, bianchi che stanno inquinando il lago delle sue nostalgie. «Quando ci nacqui io, non raccoglievano mai la fottuta spazzatura, non si vedeva mai una fottuta macchina della polizia, non c'era una fottuta scuola decente. Oggi si vedono mamme che spingono le fottute carrozzine alle tre del mattino, e questo dice tutto».

Trascurando l'ovvia iperbole artistica delle mamme, la collera del regista ha un preciso riscontro demografico. Dei cinque borough di New York, Brooklyn è quello che sta vivendo il massimo afflusso di nuovi residenti. Dopo una lenta emorragia di abitanti, la città oltre il ponte del mito e delle folle di immigranti accatastati accoglie 60mila persone in più all'anno
dal 2011, cosa che non accadeva dagli Anni ‘50. I nuovi arrivati sono in larga parte professionisti, avvocati, yuppie, prodotti di quell'industria della finanza, Wall Street, che è tornata a macinare miliardi.

Gente che ha soldi da spendere e voglia di un commute breve, di un tragitto quotidiano più rapido per raggiungere l'isola del tesoro, Manhattan. E i prezzi immobiliari, spiega l'urbanista, lievitano del 10 per cento all'anno. È il fenomeno della gentrification, dell'imborghesimento di quartieri un tempo infrequentabili, di ghetti, di "Cucine del Demonio" come era chiamato un infernale e violento cantuccio di Manhattan.

È avvenuto ovunque nella città di tutte le città. I confini di Harlem sono spinti sempre più a nord, arretrando di fronte a un'edilizia residenziale che i vecchi residenti non si possono permettere. Brooklyn, il crogiolo dell'immigrazione più disperata, degli italiani e degli ebrei rigurgitati da Ellis Island, poi dei neri alla ricerca di abitazioni a buon mercato, è oggi il più
hip, il più figo dei (fottuti) borghi di New York.

E Spike s'incazza. «Mio padre vive ancora a Fort Green al 165 di Washington Street con mia madre e suona il suo basso. La sua nuova fottuta vicina lo ha denunciato 17 volte alla polizia per il rumore di notte ed era un basso acustico, neppure un fottuto basso elettrico. Non vi dico di non venire a Brooklyn, ma abbiate almeno un po' di rispetto per chi è nato e cresciuto in quel quartiere o andate a farvi fottere».

Sentimenti di nobile e sanguigno attaccamento ai «bei tempi andati» che tuttavia bellissimi non dovevano essere, se non nella nebbia dei ricordi. Ai suoi primi successi cinematografici, con Malcolm X e Clockers acquistò il primo alloggio a Manhattan per 650mila dollari, rivendendolo poco dopo per il doppio. Con il ricavato e gli incassi delle sue produzioni si trasferì nell'Upper East Side, il ghetto di ricchi bianchi e supremo braciere delle vanità, che vendette per il quadruplo di quanto aveva pagato.

Da lì, acquistò, nella 63a strada Est, il grande appartamento del pittore Jasper Johns. Oggi è sul mercato per 32 milioni di dollari. Lee dunque lamenta proprio quella furiosa, vitale trasformazione urbanistica e demografica della quale ha approfittato per scaldarsi al fuoco vanità.

Quello che sta accadendo alla culla di Lee, Brooklyn, è accaduto da sempre, anche senza attendere la falce oscena che ha rifatto con la violenza il World Trade Centre. La zona delle macellerie, il distretto del Meatpacking, è diventato territorio di ristoranti nuovi e di palazzi di lusso. Little Italy sopravvive soltanto nei pezzetti di colore per i telegiornali italiani. Quando Martin Scorsese, cresciuto nel "Five Points" della Bassa Manhattan, fra Bowery e Canal Street, dovette andare a Cinecittà per farsi ricostruire una New York che non esiste più.

L'ironia dello sfogo di Spike Lee sta nel rovesciamento, forse voluto, di un classico del razzismo bianco, riassunto nella celebre frase "there goes the neighborhood",
è la fine del nostro quartiere all'arrivo del primo residente di colore. Questa volta è l'invasione dei nuovi Cristoforo Colombo, dei «fottuti bianchi fighetti » a rovinare un borgo di New York e a renderlo fottutamente borghese.

 

 

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