spotify

SPOTIF-AHI! - L'APP MUSICALE CAMBIA LE SUE IMPOSTAZIONI DELLA PRIVACY: VUOLE RACCOGLIERE LE NOSTRE FOTO, CONTATTI E POSIZIONI PRESENTI SUL TELEFONO - LO FA PER CAPIRE COSA FACCIAMO MENTRE ASCOLTIAMO. MA GLI UTENTI SONO FURIOSI E MINACCIANO DI ANDARSENE

Fabio Chiusi per http://chiusinellarete.blogautore.repubblica.it/

 

"Con il tuo permesso", si legge nella nuova privacy policy di Spotify, "potremo raccogliere informazioni immagazzinate sul tuo telefonino, come i contatti, le foto o i file media". Ancora: la app da oltre 75 milioni di utenti attivi vuole sapere dove ci troviamo, mentre siamo all'ascolto; per farlo, si avvale dei dati di localizzazione - via GPS o Bluetooth - e anche di quelli prodotti dai sensori dello smartphone. Per esempio, si legge ancora, "dati sulla velocità dei tuoi movimenti" che permettano a Spotify di dedurre "se stai correndo, camminando o sei di passaggio".

IL CREATORE DI SPOTIFYIL CREATORE DI SPOTIFY

 

Le reazioni non si sono fatte attendere: a che servono le nostre foto e video a un servizio che fornisce musica in streaming? Davvero, come implica la posizione del CEO Daniel Ek in uno scambio su Twitter, è indispensabile un simile livello di intrusione per una funzione banale come cambiare l'immagine delle playlist e del profilo? E la privacy? Le risposte del servizio e di Ek non convincono.

 

L'era dello streaming legale ha già polverizzato la nozione di possesso (la musica che pago su Spotify, Deezer, Tidal o Apple Music non è mia allo stesso modo in cui lo era quella comprata su supporto fisico, ovviamente), e portato l'esperienza di ascolto sempre più verso un (ulteriore, ennesimo) gesto di condivisione, piuttosto che di intimità; le nuove condizioni di utilizzo di Spotify, tuttavia, sembrano voler consolidare l'idea che questa nuova nozione di musica sia un (ulteriore, ennesimo) lasciapassare per una concezione della privacy in cui la privacy, in sostanza, scompare.

spotifyspotify

 

Il reale intento è chiaro, e dichiarato: usare tutti i dati possibili per personalizzare al meglio i suggerimenti e le playlist del servizio. Che dovrebbero seguirci tutto il giorno, a seconda di ciò che facciamo, del nostro umore, delle nostre preferenze così come disseminate nei nostri gesti online - su Spotify stesso, o sui social network che vi possiamo collegare. Per convincersene basta leggere il resoconto di Wired, del mese scorso, sul lavoro del team di 32 persone che tenta di produrre raccolte di "musica di ogni tipo immaginabile, per ogni immaginabile umore o situazione".

 

Le persone non ascoltano più la musica come prima, in library sterminate: preferiscono piccole liste, una per occasione. Perché non portare le premesse alla conclusione, dice un responsabile di Spotify, e pensare all'unità di misura della fruizione musicale non in termini di librerie sonore ma di "momenti" della propria vita? Scrive Wired:

 

taylor swift spotifytaylor swift spotify

These are what Spotify calls “Moments,” which are the organizing principle for the next phase of Spotify. Spotify is beginning to read your context—your location, the time of day, and more—to make deeply educated guesses about what you might want to listen to. You always run at 7 am, before work; Spotify’s going to start showing you running playlists at 7 am. In the morning, Rajaraman says they’ve found most people like uplifting music, so they’re starting to show users playlists like “Have a Great Day!” End of the day, you’re heading home, maybe you want “Evening Chill” to mellow you out a bit. It’s 2 am and you’re still listening to Spotify? You’re probably drunk, so here comes Avicii.

spotify a covent gardenspotify a covent garden

 

Ecco il motivo di quella raccolta spregiudicata di dati: serve a fornire il materiale grezzo che algoritmi e persone insieme rielaborano per darci un'esperienza di ascolto il più personalizzata possibile. Ancora una volta, è la personalizzazione la chiave per ridurre la privacy in modo socialmente accettabile - per quanto diversi utenti su Twitter, dopo le nuove impostazioni prendere-o-lasciare sulla riservatezza ("se non sei d'accordo, non usare il servizio") abbiano deciso di lasciare.

 

Il livello di intrusione dichiarato da Spotify non mi sembra per ora avere paragoni nella concorrenza più agguerrita: le privacy policy di Deezer, Rdio, Tidal o Apple Music non prevedono - almeno esplicitamente - niente di quanto aggiunto da Spotify nelle scorse ore.

 

apple developers conference 2015  4apple developers conference 2015 4

Se non bastasse, poi, le novità testimoniano il passaggio dall'idea - già odiosa, ma quantomeno giustificata dal modello di business - per cui "se non paghi sei il prodotto" a quella, perfino peggiore, che lo sia anche chi paga (nel caso di Spotify, 20 milioni di persone); che il prezzo in termini di dati personali sia da corrispondere in aggiunta, e non in sostituzione, a quello monetario.

 

È il costo dello "smart": se vuoi suggerita una playlist per correre, la app "intelligente" deve sapere che corri. E quanto, come, parlandone con chi, portando con te quali preferenze e gusti. È questo il vero valore aggiunto del servizio, il suo vantaggio competitivo, quando librerie da milioni di brani sono lo standard: offrirne le selezioni giuste al momento giusto, rivolgendosi individualmente ai bisogni di ciascun utente.

apple developers conference 2015  3apple developers conference 2015 3

 

Ma quando tutto diventa metrica, tutto diventa controllabile - e in modo perlopiù invisibile al controllato. Per questo non concordo con Tom Warren, di The Verge, quando su Twitter minimizza la portata della nuova policy di Spotify: la domanda, posta da più parti, su perché un servizio musicale necessiti dell'accesso a tutti i contenuti del nostro smartphone rimane, a prescindere dal "così fan tutti" (che peraltro, come detto, non mi sembra nemmeno vero).

 

E no, non basta rispondere - come ha fatto l'azienda e come argomentato qui - che è tutta questione di personalizzazione: è proprio quest'ultima a rappresentare una delle principali minacce alla privacy in rete, come evidenziato da Eli Pariser ne 'Il Filtro'. Non basta specie quando i dati vengono condivisi con partner pubblicitari in un modo che Forbes definisce senza esitazioni "vago", al punto di non consentire di discernere davvero quali informazioni siano raccolte.

 

LA RETE DEI SATELLITI GPS LA RETE DEI SATELLITI GPS

Un eventuale eccesso di attenzione ai risvolti di condizioni di utilizzo problematiche mi sembra poi, contrariamente a Warren, un fattore positivo più che negativo - specie in un mondo in cui parte del problema è la disattenzione diffusa ai TOS, qualunque cosa dicano. Sta a Spotify dimostrare che i suoi proclami sul rispetto della privacy non sono solo propaganda aziendale. Al momento, leggendo il testo della sua policy, questo sembrano.

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