FERLINGHETTI, L’ULTIMO BEAT - SORIA DEL POETA CHE FONDÒ LA STORICA LIBRERIA “CITY LIGHTS” E FU PRIMO EDITORE DELLA BEAT GENERATION (“HOWL” DI GINSBERG) - “SAN FRANCISCO FU IL CROGIUOLO E IL LABORATORIO DI UNA NUOVA CULTURA. I PRIMI A SPERIMENTARE L’USO DELLE DROGHE PER AMPLIARE IL RAGGIO DELLE COSCIENZE” - MA QUALE ’68! “LA ROTTURA AVVIENE NEL 1963, SPARTIACQUE CHE SEGNA LA FINE DEL COOL JAZZ E L’INIZIO DELL’ERA ROCK” - QUANDO ANDÒ A BRESCIA A VISITARE LA CASA DEL PADRE, FU SCAMBIATO PER UN BARBONE E ARRESTATO…

Federico Rampini per "la Repubblica"

La Rivoluzione arriverà, eccome se arriverà. E comincerà con una poesia. Siamo pronti. Non ci coglierà impreparati in quest'angolo del Far West che si affaccia sul Pacifico. Se volete respirare l'Utopia, quella vera, prima o poi dovete passare alla libreria-casa editrice City Lights di San Francisco. Dove un fanciullo di novantatré anni continua a sognare un mondo diverso.

Come la prima volta che sbarcò qui: allora mezzo italiano e mezzo francese, mezzo zingaro apolide anche se vestiva l'uniforme militare della US Navy e aveva appena finito di combattere per gli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale. Capì subito che sarebbe diventata casa sua, questa città di pirati e avventurieri, cercatori d'oro e fanciulle di facili costumi. Lo è rimasta. City Lights campeggia, più vivace a affollata che mai, come un faro e un punto d'incontro: fra quella Little Italy che a San Francisco si chiama North Beach (qui vicino c'è l'enoteca di Francis Ford Coppola), la Chinatown nata nell'Ottocento, il quartiere a luci rosse, la Coit Tower con i murales del New Deal.

Lui oggi lo chiamano l'Ultimo dei Beat: una definizione che lo fa ridere di gusto. «Sono identificato per sempre con quel movimento letterario - mi dice Lawrence Ferlinghetti - perché i poeti beat li pubblicai io, qui alla City Lights. In realtà io li precedevo, appartenevo a una generazione più antica: dovrebbero chiamarmi l'Ultimo Bohémien! Quando arrivai a San Francisco, direttamente da Parigi, avevo ancora in testa il basco francese...».

Anche per i parametri del nomadismo globale di oggi, lo sradicamento perenne e il girovagare di Ferlinghetti da giovane fa venire le vertigini. Nasce a New York nel 1919 da un padre bresciano che non conoscerà mai (morto sei mesi prima della sua nascita) e una madre che mescola origini francesi e portoghesi-ebreo sefardite. La mamma impazzisce quasi subito dopo la morte del marito e finisce in un manicomio. Lawrence viene allevato da una zia a Strasburgo, perciò il francese è la sua prima lingua.

La zia viene poi assunta come governante da una famiglia newyorchese, i Bislands, che lo adottano e gli consentono di studiare giornalismo. La guerra lo vede mobilitato come ufficiale di marina sulle navi caccia-sommergibili: prima lo sbarco in Normandia, poi in Giappone dove visita Nagasaki subito dopo la deflagrazione atomica, un'esperienza che lo segna profondamente e ne fa un pacifista convinto. Poi di nuovo Manhattan dove lavora come fattorino all'ufficio postale del magazine Time.

Si laurea alla Columbia University. Torna a Parigi per un dottorato in letteratura.
«Di San Francisco ricordo perfettamente il mio arrivo: era il primo gennaio 1951, non conoscevo anima viva, passeggiavo sulla Market Street con una borsa della U.S. Navy a tracolla. Le prime persone a cui rivolsi la parola non sembravano considerarsi come parte degli Stati Uniti. C'era un'atmosfera da colonia d'oltremare, forse un po' come una Napoli d'altri tempi. Non era una città fondata da borghesi ma da giocatori d'azzardo, cercatori d'oro, truffatori, lupi di mare e donne di ventura. Era davvero una città di frontiera, molto meno tradizionale di oggi...».

Qui Ferlinghetti avverte il mio trasalire: solo un anarchico radicale come lui può definire "tradizionale" la San Francisco di oggi, la più ribelle e trasgressiva delle città americane. «Ma sì» - continua - «allora era davvero una città aperta a tutto, poteva diventare qualsiasi cosa. Perciò nei dieci anni dopo la Seconda guerra mondiale fu il crogiuolo e il laboratorio di una nuova cultura. I suoi protagonisti magari venivano da New York come me o come Jack Kerouac, ma è qui che si trovarono insieme ed è qui che fiorirono contemporaneamente tante cose nuove: una nuova poesia, un'idea dell'ecologia, un movimento rock ospitato nella sala concerti Fillmore, infine la rivoluzione elettronica che nella Silicon Valley ebbe i suoi pionieri già negli anni Cinquanta».

Nel 1955 Ferlinghetti incontra qui Allen Ginsberg e i due si sentono subito «solidali per le idee politiche», diversissimi in tutto il resto. (Ancora oggi Ferlinghetti si diverte nel ricordare come lui e Gregory Corso, tenacemente eterosessuali, abbiano convissuto con tanti scrittori gay). Ma è City Lights che pubblica Howl di Ginsberg, il poema maledetto che viene censurato per oscenità dal giudice Clayton Horn. «Quella poesia - dice Ferlinghetti - segna la morte dello stile accademico, che da quel momento in poi è relegato nell'ombra».

In quegli anni c'è in germe tutta la vicenda che poi renderà celebre San Francisco nel mondo intero, e cioè la New Age, il movimento hippy, la Summer of Love. «Sì, noi avevamo anticipato quasi tutto: la poesia militante contro le guerre, la prima articolazione di una coscienza ambientalista, l'interesse per il buddismo, l'uso delle droghe psichedeliche per ampliare il raggio della coscienza».

Quest'ultimo, è un punto che Ferlinghetti sottolinea con ostinazione: non è folclore, non è un dettaglio sullo sfondo, per lui è un elemento centrale nella definizione di ciò che fu la letteratura beat. «Fino a quel momento gli scrittori americani erano bevitori di alcol, con l'unica eccezione di Edgar Allan Poe non avevano sperimentato sistematicamente le droghe. Solo con i poeti beat diventa centrale nella creazione artistica lo stimolo delle droghe psichedeliche, che poi fiorirà a livello di massa con la cultura hippy negli anni Sessanta e Settanta. La rottura avviene in tutti i campi: il 1963, per esempio, è uno spartiacque che segna la fine del cool jazz e l'inizio dell'era rock».

L'Ultimo Beat resta convinto, come quando aveva trent'anni, che la poesia cambierà il mondo? «Sissignore: cambiando le coscienze. Negli anni Sessanta un aspetto centrale delle nostre esperienze fu proprio questo: allargare l'area della coscienza umana. E credo che in una certa misura ci riuscimmo».

Non pretendete da Ferlinghetti l'arte del compromesso politico, della mediazione. Smettete di leggere subito, benpensanti di sinistra dalla sensibilità fragile: interrogato su Barack Obama, il poeta scavalca a sinistra Occupy Wall Street e i black block. Maltratta il suo presidente. «La sinistra era euforica quando venne eletto: sembrava che aspettasse un nuovo Nirvana. Io mi trovavo alla libreria Shakespeare & Co. di Parigi, la sera della vittoria nel novembre 2008. E dissi subito: è un illusione, Obama è la borghesia nera. Non è mai stato un rivoluzionario. Attendersi che uno come lui ribaltasse i metodi di governo, era assurdo. È sempre stato uno di centro. Sul terreno militare, l'espansione nell'uso dei droni lo rende non molto diverso da George Bush. Obama ha privilegiato la sicurezza nazionale rispetto ai diritti civili».

L'Italia è una patria che Ferlinghetti si è conquistato faticosamente, recuperandola da un passato che gli era stato rubato. «Mio padre faceva parte di una generazione d'immigrati per i quali le origini italiane erano un peso. All'inizio il mio cognome venne abbreviato: Ferling, per suonare anglosassone. Negli anni Venti essere italiano in America voleva dire puzzare di aglio e peperoni, un'immagine da cui volevi liberarti. Io ero il quinto figlio della famiglia, ricordo uno dei miei fratelli che faceva il guardiano alla prigione di Sing Sing e reagì con rabbia quando gli mandai una lettera firmandomi per esteso, come Ferlinghetti. Guai a farsi riconoscere. Io ero diverso. Ho sempre avuto voglia di ri-connettermi, di rimettermi in contatto con le mie origini. Tre anni fa ho ritrovato l'appartamento dove nacque mio padre, a Brescia. E lì sono stato arrestato!».

Questa è una storia buffa, che riferisco come me la racconta lui: il novantenne Ferlinghetti, con una barba sempre ispida, si aggira a Brescia attorno al palazzo dove nacque suo padre. Il portiere dell'immobile s'insospettisce, forse gli sembra un barbone («mi definisce un parassita»), chiama la polizia che lo perquisisce e lo sottopone a fermo. "Poeta arrestato", è il titolo che appare il giorno seguente sulla stampa locale, di cui Ferlinghetti conserva i ritagli come un trofeo.

«Qualcuno ha scritto che è intervenuto il sindaco di Brescia per farmi liberare. Non è vero ma non importa, mi ha spiegato il mio gallerista italiano: meglio che si scriva così, perché adesso ho un credito verso il sindaco di Brescia». Ride ancora, ride di gusto, per i costumi esotici di questa sua patria italiana: patria vera e d'adozione, che lui abbraccia con affetto anche quando non la capisce.

«Mia madre parlava francese, da bambino ero francofono, e anche francofilo, non a caso andai dopo la guerra a studiare alla Sorbona. La lingua italiana mi è arrivata in seguito, eppure fu facile e naturale, non una sovrapposizione. Il mio primo viaggio nel paese di mio padre avvenne nel 1948, ci arrivai in autostop dalla Francia. E subito gli italiani mi piacquero più dei francesi. Perché voi vi godete la vita, mentre loro la criticano. Non ho mai capito come avete potuto coesistere per secoli, voi e loro, così vicini».

 

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