
ITALIANI BRAVI A CENSURARE – LA STORIACCIA DEL FILM, CON MASTROIANNI E MICHEL PICCOLI, SUGLI ITALIANI IN ALBANIA NEGLI ANNI DEL FASCISMO - NEL 1980, L'ATTORE ITALIANO INCONTRO' L'AMBASCIATORE ITALIANO A TIRANA, TOZZOLI, PER PARLARGLI DE "IL GENERALE DELL'ARMATA MORTA" - IL DIPLOMATICO SCRISSE ALLA FARNESINA: "VENGONO MESSI A LUDIBRIO I PIÙ VIETI, PRESUNTI TRATTI PEGGIORATIVI DEL CARATTERE ITALIANO, DALLA VIGLIACCHERIA AL CINISMO, ALLA VOLGARITÀ MORALE. UN ENNESIMO DISCREDITO DI CUI PROPRIO NON SENTIAMO IL BISOGNO" - ALLA FINE IL FILM USCÌ NEL 1983, MA SOLO IN FRANCIA... - VIDEO
Estratto dell'articolo di Alberto Piccinini per "il Venerdì - la Repubblica"
Natale 1980. All’hotel Dajti di Tirana, bianco e modernista disegnato da Giò Ponti, crocevia di diplomatici, funzionari e spie, l’ambasciatore italiano raccoglie le voci che girano. A Roma, Marcello Mastroianni aveva cenato con l’ambasciatore albanese per sottoporgli il progetto di un film da girare nel Paese comunista, sempre più chiuso e paranoico.
Durante la cena si era parlato anche “degli scandali, dei furti, dei democristiani, del Vaticano”. Sta tutto raccolto negli archivi che ora il giornalista Antonio Caiazza ha potuto consultare per il suo libro ''Una storia scomoda. La guerra segreta al film con Mastroianni sugli italiani in Albania negli anni del fascismo'' (Bibliotheka).
L’ambasciatore Tozzoli scrisse immediatamente al ministro: “(...) Vengono messi a ludibrio i più vieti, presunti tratti peggiorativi del carattere italiano – dalla vigliaccheria al cinismo, alla volgarità morale (...), un ennesimo discredito di cui proprio non sentiamo il bisogno”. Conosceva il romanzo di Ismail Kadare del quale l’attore si era invaghito nella sua traduzione francese: Il generale dell’armata morta.
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Lo scrittore albanese raccontava una storia vera: negli anni 50 un colonnello e un cappellano militare dell’esercito italiano girarono le montagne alla ricerca dei resti dei nostri militari caduti nella guerra contro i partigiani, scoprendo miserie e crudeltà, fino al ritrovamento delle ossa del misterioso generale Z, comandante di una brigata particolarmente efferata.
Un “italiani brava gente”, insomma, al quale Kadare aveva dato l’andamento di una commedia macabra e ambigua. Mastroianni e Michel Piccoli, coinvolto anche lui nella produzione, avrebbero interpretato la coppia di militari, Anouk Aimée la vedova del generale Z, Castellitto il traduttore, cioè lo stesso Kadare da giovane. La regia di Luciano Tovoli segna l’esordio dietro la macchina da presa di uno dei nostri più bravi direttori della fotografia: da Antonioni a Dario Argento.
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A Roma la cosa dovette urtare più d’una suscettibilità. Risulta ancora da documenti albanesi che Sergio Romano, all’epoca responsabile della cooperazione culturale, convocò alla Farnesina l’ambasciatore Piro Bita. «Questo film danneggia i nostri buoni rapporti e potrebbe creare un clima sfavorevole per le relazioni future. Ci chiede di prendere opportuni provvedimenti», così quest’ultimo riferisce il discorso che gli fece Romano.
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All’ambasciatore francese lo stesso Romano chiese invece di contattare Antenne 2, che avrebbe finanziato il film. Il linguaggio resta diplomatico, felpato. Risultato: «Si è deciso che il film verrà realizzato senza alcun riferimento storico e geografico». In effetti, Il generale dell’armata morta sarà girato tre anni dopo, non in Albania – come si immaginava – ma in Italia, sul Gran Sasso.
C’è una citazione di Kadare in esergo al volume di Caiazza: “Nei regimi totalitari il peggio è quando non sai esattamente che cosa succede alla tua opera, ufficialmente non è vietata ma, per un accordo nascosto, nessuno ne parla, come se non esistesse”. E infatti questa non è una storia di censura, ma di silenzi. Un doppio trattamento albanese. Mentre in Italia, nelle stanze della diplomazia, ci si adoperava per rendere il film “generico”, a Tirana Ismail Kadare si muoveva con le sue conoscenze perché la troupe di Mastroianni e Piccoli potesse girare nei luoghi veri.
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È la parte più kafkiana della vicenda: l’Albania di quegli anni – ci ricorda Caiazza – era un posto dove si poteva scomparire da un giorno all’altro sul retro di un camion Skoda e finire al confino accusati di revisionismo. Lo scrittore chiedeva apertamente ai vertici del partito di dargli una mano a “influenzare il film, affinché sia il più positivo possibile per il popolo e per il nostro Paese”.
«C’era qualche possibilità» osserva Caiazza «che il film potesse imbarcare pezzi plateali di propaganda? Nessuna. Era tanto sprovveduto Kadare da non rendersene conto? Assolutamente no. E allora perché quelle pressioni (...)? Perché servivano a mantenere tranquilli i dirigenti (...)». Forse il ritrovamento più interessante è una lettera che lo scrittore indirizza a Enver Hoxha, il giorno che gli viene negato il permesso di andare a Parigi. Brutto segno.
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“Compagno Enver, (...) il Partito, come mi ha criticato severamente, mi ha dato una mano con altrettanto amore...”. È una lettera lunga e penosa, c’è dentro un dramma personale. “L’anno scorso sono stato chiamato al Comitato di Tirana per essere informato che mia sorella parla male della politica. Ho detto al compagno segretario che fa bene a spaventarla (...). Sfortunata nella vita per non essersi sposata, soffre di turbe maniaco-depressive e di squilibrio nervoso, potevo aspettarmi tutto da lei”.
Cosa c’entra la sorella di Kadare coi suoi libri? Con la sua reputazione? E con il viaggio a Parigi per discutere del film? Lo scrittore alla fine riesce a partire: «Il mio è un racconto universale... Lasciate perdere le nostre ciminiere socialiste...», avrebbe detto infine ai produttori. [...]