THE WINNER IS SERGIO ENDRIGO! ARRIVA L’OSCAR POSTUMO PER IL “PEZZO” DI BACALOV COPIATO DA UN SUO VECCHIO LP

Giancarlo Dotto per "Il Fatto Quotidiano"

Il plagio ha le gambe corte, le orecchie lunghe e la pancia enorme di Marco Antonio de Avila. Se il maestro Luis Bacalov volesse risalire all'origine della sua disgrazia di Premio Oscar sbugiardato e comunque ridimensionato, dovrebbe immaginare quest'omone falstaffiano e il suo quintale e mezzo incastrato nel sedile di legno di un cinema a Porto Alegre, città del profondo Sud del Brasile. Siamo nel lontano febbraio del 1996. Quel giorno in sala proiettano "Il Postino", film candidato a cinque statuine che racconta la storia d'amicizia tra Pablo Neruda e il ragazzo che gli consegna le lettere a casa.

Il nostro è lì che rumina al buio i suoi chicchi di pop corn, attratto più dalle tette della Cucinotta che dal sorriso mesto di Troisi, quando vorrebbe ma non può saltare sulla sedia. "Questa traccia melodica, io l'ho già sentita...". Marco crede alle sue orecchie. Lui, 46 anni, pilota della Varig, è un collezionista maniacale di musica italiana, lascito della nonna Carolina di Rimini che, invece delle pistole a spruzzo, gli regalava i dischi di Donaggio, Meccia, Paoli, Endrigo.

De avila torna a casa con quelle note che gli trapanano le tempie. Una melodia semplice e struggente. Per due giorni e due notti la sua è un'immersione nella bolgia del vinile, quattromila dischi italiani, fino a che non incappa in un Lp del suo amatissimo Sergio Endrigo. "La voce dell'uomo", edizione 1975. Ascolta uno dei brani, "Nelle mie notti", e quasi sviene. Togli il bandoneon di Bacalov, metti il piano di Endrigo e sono uguali.

Un mese dopo Marco De Avila è a Miami. La sera del 25 marzo è lì che bivacca nella sua stanza d'albergo a smanettare il telecomando, quando intercetta Luis Bacalov che agita trionfante la statuina d'oro a Los Angeles, subissato dai flash. Marco, che ama Endrigo più di sua madre, non ci sta. Fissa l'impostore esultante e ringhia: "Non è tuo quell'Oscar, è di Sergio Endrigo, il maestro". Inizia di fatto quella notte, in una camera d'albergo di Miami, da quel ringhio minaccioso, la contesa all'ultimo diesis che durerà quasi diciotto anni e finirà con la resa di Bacalov.

Due mesi dopo Marco è di passaggio a Roma. A cena, a casa di amici, c'è un giornalista, che poi, inciso, sarei io. De Avila domanda: "Ma voi in Italia lo sapete che la musica Oscar de "Il postino" è copiata di sana pianta da una canzone di Endrigo?". Lo guardo con sufficienza. Lo prendo per un mitomane. Ma il tarlo mi resta. Decido di chiamare Sergio Endrigo.

Il giorno dopo, 24 maggio del '96, io e l'ingombrante brasiliano ci presentiamo con due nastri nella tana romana del maestro. Diciannove gatti che smiagolano ovunque e Paco, il pappagallo, oggi ancora vivo e parlante. Ricordi ammassati a casaccio. La foto di Vinicius de Moraes, quella con Toquinho, la copertina del suo disco di Hugo Pratt, i vinile di Brassens e di Brel. De Avila non sta nella pelle, suda, gli bacia le mani. "Maestro, ascolti questa sua canzone e la confronti con la musica di Bacalov.

Endrigo, jeans e sigaro pendulo tra le labbra, lo sbircia obliquo come fosse il ventesimo gatto, quel trafelato spasimante che gli ha appena schiantato in mille pezzi una sedia. "Era un raro pezzo d'antiquariato", commemorò Endrigo, con la sua compostezza tutta anglosassone. Si ricordava della sedia ma non di quella vecchia canzone. Non aveva mai visto "Il Postino" e non vedeva Bacalov da due anni. Ascolta i due brani, li sovrappone, la traccia melodica unica, le varianti, il sigaro sempre più pendulo. Ci congeda. "Sapete, io sono un pessimista di natura e sono anche un po' sordo. Lasciatemi i due nastri, vi faccio sapere...".

Mi chiama la sera. Eccitato, confuso, incazzato. Aveva passato il pomeriggio con la figlia Claudia a confrontare i due motivi. "E' pazzesco, sono identici... Con Bacalov abbiamo lavorato tanto insieme negli anni '60, ricordo quando gli feci ascoltare il pezzo al piano per avere un suo parere...".

Il caso esplode. Ennio Morricone, amico di entrambi, ha tentato invano di convincere Endrigo a ricomporre pacificamente con Bacalov. Il musicista argentino convoca una conferenza stampa. Sostenuto da Morricone, spiega: "Il plagio non esiste". In quei giorni si fanno vivi altri due autori della canzone, Riccardo del Turco, cognato di Endrigo, e Paolo Margheri, fiorentino, paroliere dilettante. "Nelle mie notti più solitarie tu la mia mente fai prigioniera...". L'embrione del pezzo nasce nella sua casa di Campo di Marte, a via Centostelle, nome che profuma di Hollywood.

Inizia la guerra dei periti, il gioco alterno delle sentenze. Nel frattempo, il 7 settembre 2005, Sergio Endrigo muore di tumore. Non è vero che non rideva mai Endrigo, che era un musone. Lui rideva, beveva, era goloso di dolci, giocava a poker e raccontava barzellette. L'ultima me la raccontò al telefono, due mesi prima di morire. Abbiamo riso insieme.

Aveva un senso molto pagano della vita. Voleva morire a Napoli o a Bahia, perché da quelle parti è tutto molto pagano, anche la religione. Allegro pessimista, si sentiva in credito con la sorte e con la vita. Aveva molto patito i tempi infiniti della giustizia, la prima sentenza avversa, poi ribaltata in appello. Non lo saprà mai o, forse sì, lo sa che, otto anni dopo, ha vinto l'Oscar e che il suo nome, insieme a quelli di Del Turco e Margheri, si aggiunge a Bacalov come autore de "il postino". Di Marco de Avila, l'eroe di questa storia, non abbiamo saputo più niente.

 

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