WERTMÜLLER: “AMO L’EROS, IL GROTTESCO. ORA MI RINCOGLIONISCO DI CINEMA MA SE DOMANI NON CI SARÒ PIÙ, SAPPIATE CHE MI ALZERÒ DA TAVOLA COME UN COMMENSALE SAZIO”

Antonio Gnoli per "la Repubblica"

Svogliata, capricciosa, inversa. Sdraiata su un divano - che Freud avrebbe guardato con la stessa curiosità con cui studiava i suoi nevrotici - Lina Wertmüller mi riceve nella sua casa romana. Dice di non avere troppo tempo da dedicarmi. Sollecita la lettura di articoli su di lei, biografie, monumenti. E la prima cosa che penso è che chi mi sta di fronte sia una persona insopportabile.

Non un'egocentrica, come pure capita di incontrare e neppure una provocatrice pronta a stoppare l'ennesimo seccatore di turno. Ma una cui non frega più niente di niente. È lì stesa sui cuscini con i suoi inconfondibili occhialini bianchi a dirci - tra i silenzi e i colpi di tosse - che la vita ha compiuto il suo giro completo. Poi penso che a 85 anni Lina Wertmüller ha tutto il diritto di mandarmi al diavolo e che in fondo sotto quell'apparente svagatezza si cela la donna intelligente, provocatoria, e perfino fragile che ci ha regalato alcuni dei più bei film della storia italiana, a cominciare da quell'esordio I basilischi che la impose a livello internazionale.

Che ricordo ne ha?
«Ma io non voglio ricordare. Sono stanca. Dormo poco. Ho sempre dormito poco. Tre o quattro ore per notte. Un tempo mi bastavano. Per fare tutto quello che facevo».

E ora?
«Ora che?».

Cosa fa, la notte, quando è sveglia?
«Vedo film, mi rincoglionisco di cinema. La notte, il giorno, il pomeriggio. In questo momento è la mia occupazione principale: condannata a vedere».

Le piacerà anche.
«Ci sono film che non invecchiano. Solitamente quelli in bianco e nero. Mi farebbe un favore?».

Se posso.
«Non mi faccia più domande».

Perché ha accettato che venissi?
«Forse perché ci illudiamo di essere dei punti di riferimento nel mondo reale».

Per alcune persone lo siamo, per altre forse lo diventeremo.
«In un certo senso è vero. Se ci va bene diamo e riceviamo orientamento. Vuole un bilancio della mia vita? Credo di essere stata una donna molto fortunata».

E il cinema c'entra con questa fortuna?
«Non potrei negarlo. Alti e bassi: è la legge dello spettacolo».

Più alti, direi.
«Vuole compiacermi?».

Ma no, è un fatto. Proprio a cominciare da quell'esordio. Che anno era?
«Ci risiamo. Vabbè, era il 1961. Scelsi di raccontare una storia del Sud, un pezzo delle mie radici. Avvenne tutto in maniera molto casuale. Ero andata con Tullio Kezich a trovare Francesco Rosi sul set di Salvatore Giuliano. Mi venne la curiosità di visitare il paese di origine di mio padre che non era molto lontano: Palazzo San Gervaso, una gloriosa cittadina della Basilicata.

E guardando la vita arcaica e velleitaria dei suoi abitanti, sentendoli parlare come se al mondo non esistesse che quel paese, pensai che quella storia valeva la pena di raccontarla. Scrissi la sceneggiatura e realizzai il film. Kezich, che aveva caldeggiato e seguito tutte le fasi, riuscì a farlo entrare in concorso al festival di Locarno, dove vinse. Era il 1963».

Aveva già avuto esperienze con il cinema?
«Frequentavo Federico Fellini. Lo conobbi attraverso la mia amica Flora Carabella, una donna dotata di un fascino unico, che avrebbe in seguito sposato Marcello Mastroianni. Fellini dava l'impressione di interessarsi a te, quando in realtà era solo lui il centro dell'attenzione. Comunque, gli divenni amica. Lo accompagnai perfino alla prima londinese della Dolce vita
e lo aiutai nel casting di Otto ½. Tra l'altro, fu proprio grazie alla troupe di Otto ½ che potei realizzare I basilischi. In ogni caso, più che il cinema fu il teatro la mia passione d'esordio».

E come si realizzò quella passione?
«Fu grazie a Flora, che si era iscritta all'Accademia d'arte drammatica, che cominciai a frequentare l'ambiente. Ero troppo piccola per iscrivermi e alla fine scelsi la Libera accademia del teatro che era diretta da Pietro Scharoff, un allievo di Stanislavskij di cui insegnò il metodo. Finito l'apprendistato mi sentivo pronta a conquistare il palcoscenico. E feci una cosa abbastanza inusuale».

Cioè?
«Mi rivolsi direttamente a un famoso regista teatrale, Guido Salvini. Suonai il campanello di casa e lui mi venne ad aprire in pigiama e morto di sonno. Mi disse che vuoi ragazzina? "Mi chiamo Lina Wertmüller e voglio fare l'aiuto regista". Avevo una faccia tosta incredibile. Fu così che ebbe inizio la mia avventura teatrale».

A parte Salvini chi l'aiutò?
«Fu Andreina Pagnani, grandissima attrice, a prendermi sotto la sua protezione. Mi presentò Giorgio De Lullo che aveva creato la Compagnia dei Giovani con Romolo Valli, Rossella Falk, Anna Maria Guarnieri. Giorgio era un uomo bello e dotato di una grande sensibilità.
Soffrì enormemente per la morte di Romolo Valli, avvenuta in un incidente automobilistico, al punto di ritirarsi per alcuni mesi in un convento. Poi, si lasciò travolgere dall'alcol. L'ultima volta che lo incontrai fu al caffè Rosati di Roma: lo vidi alle dieci del mattino con un enorme bicchiere di whisky in mano».

Cos'è l'autodistruzione?
«Girare intorno al proprio abisso e poi finirci dentro. Bisognerebbe amare tutto quello che fa crescere e detestare ciò che ci fa regredire ».

Come sono stati gli amori della sua vita?
«Belli, strani, a volte divertenti. Ma per me uno solo fu fondamentale. E se non sentissi il senso del ridicolo, aggiungerei eterno, quello per mio marito: Enrico Job. Come si fa a raccontarlo?».

Cosa ha avuto di speciale?
«Tutto. È stato un grande artista. Ai miei occhi il più grande. Era un uomo schivo che non accettava i compromessi. Deluso dal mondo dell'arte contemporanea, aveva preferito il teatro. Fu uno scenografo impareggiabile, innovativo. Ha ideato per me le cose più belle, anche quelle realizzate al cinema».

A proposito di cinema lei è stata la prima donna candidata a un Oscar per la regia.
«Avvenne con Pasqualino Settebellezze, ebbe quattro nomination. New York impazzì per i miei film. Avevo messo d' accordo il pubblico, la critica e i registi. Pensi che Woody Allen, colpito dalla montatura dei miei occhiali bianchi, voleva farmi fare un cameo in Io e Annie. In quel periodo stavo girando un film. Perciò gli spedii un paio di occhiali simili a quelli che indossavo dicendogli che avrebbe potuto usare una controfigura. Non credo colse l' ironia. Quel piccolo ruolo fu poi interpretato da Marshall McLuhan. Perfino uno scrittore come Henry Miller, dopo aver visto Travolti da un insolito destino, disse che il film, per umorismo ed erotismo, gli ricordava Tropico del cancro ».

Uno che di sesso se ne intendeva.
«A giudicare dai suoi romanzi e carteggi era un' autorità assoluta. Nel mio piccolo con il duo Giannini-Melato realizzai la coppia più erotica del cinema italiano. O quasi».

Quasi?
«Beh, il grande De Sica aveva creato quella tra Sophia Loren e Marcello Mastroianni. Come si dice? Noblesse oblige ».

Si può coniugare erotismo e comicità?
«Ma i miei film non sono mai stati comici. Non appartengo alla tradizione gloriosa della commedia all' italiana; e lo dico consapevole che da lì sono uscite opere straordinarie. No, i miei film sono grotteschi. Che è un' altra cosa».

Cosa l' attrae del grottesco?
«Sono una donna piena di eccessi e forse il grottesco stilisticamente mi corrisponde. Amo deformare la realtà perché solo così riesco a raccontarla. Anche l' eros vi si intona meglio».

Sul grottesco viene da pensare a certi giudizi poco lusinghieri che Nanni Moretti espresse sul suo cinema.
«Ah l' abominevole Moretti! Pensavo che le sue uscite contro di me in Io sono un autarchico, sotto forma per lo più di vomito, fossero solo spiritosi espedienti. In realtà era vero disprezzo. E lo capii quando al festival di Berlino provai a salutarlo e lui mi voltò le spalle. Credo, nonostante tutto il suo successo, che sia e resti un rosicone».

Cos' è il cinema?
«È una baracconata quando lo fai. Ma poi accade il miracolo. E a volte diventa poesia».

E recitare?
«Un dono misterioso e naturale che un bravo attore ha e gli altri non hanno».

In cosa consiste?
«Ti fa credere in quello che fa. Alla base della grande recitazione c' è l' identificazione del pubblico. Ciascuno vuole essere lui o lei. È un' alchimia dei sentimenti».

Teme il pubblico?
«Temo la sua imprevedibilità. Chaplin sosteneva che il pubblico è un mostro senza testa che non si sa mai da che parte si volterà. Anche in questo caso mi ritengo fortunata».

La fortuna è anche negli incontri che si fanno.
«Dovrei fare una lista lunghissima. Ricordo con tenerezza Nino Rota, una presenza soave. Gli capitava di comporre suonando e dormendo al pianoforte. Visconti: esigente e aristocratico. Con Luchino negli ultimi tempi c' era spesso Helmut Berger. Circolava la storiella che questo giovane bellissimo gli fosse stato portato da un albergatore austriaco avvolto in un tappeto, come pagamento per un debito. Non facevano che insultarsi. Ricordo il salotto di Suso Cecchi d' Amico. Da lì è passato tutto il cinema italiano. Il solo che non andò mai era Fellini. Come salotto preferiva Roma».

È la città dove è nata?
«Sì, in una palazzina rosa dietro piazza Cola di Rienzo. Da anni vivo invece sopra piazza del Popolo. Mi affaccio e capisco perché Roma è la città più erotica del mondo. In questo piccolo spazio si intrecciavano i destini di parecchi artisti, che spesso si vedevano la sera al ristorante l' Augustea: Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Laura Betti, Elsa Morante, la più grande scrittrice italiana del ' 900».

Glielo riconoscono in molti.
«È vero. Le piacevano i cani, i gatti e i ragazzi vagabondi. Se li portava a casa e li accudiva».

Un artista deve essere diverso?
«Deve con il suo linguaggio saper raccontare delle storie. Poi che sia diverso o no chi se ne frega. Io ne ho raccontate tante. E mi capita di dire: se domani non ci sarò più sappiate che mi alzerò da tavola come un commensale sazio».

E se le chiedono il conto?
«Spero che non sia salato. Per ora si va avanti».

Avanti come?
«Ho finito di scrivere una commedia per il teatro su Livia, la moglie dell' imperatore Augusto. Fu la donna che accompagnò il difficile passaggio dalla repubblica all' impero. Di solito sono figure che non vengono ricordate. Ed è un peccato perché avremmo molto da apprendere. Livia aveva due palle che non finiscono mai».

Sente di assomigliarle?
«Non vedo imperi all' orizzonte. Però mi piacerebbe».

 

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