
NASCE ME-MO, IL MAGAZINE DIGITALE DI FOTOGIORNALISMO - È STATO IDEATO DA SEI FOTOGRAFI PLURIPREMIATI - UN MODO ALTERNATIVO DI SVELARE I DRAMMI DEL PIANETA
Marco Bardazzi per “la Stampa”
A passeggio con una donna Uigura nei sotterranei cinesi di Kashgar. Di pattuglia con i curdi in Siria. Oppure a Bengasi, in mezzo alla guerriglia negli ultimi giorni di Gheddafi. Tutte esperienze che ora si possono rivivere senza lasciare il divano di casa, su un tablet o su uno smartphone, accompagnati dal miglior fotogiornalismo globale. Non solo immagini, ma suoni, sguardi, contesti e approfondimenti che grazie alla tecnologia offrono la possibilità di «immergersi» in modo innovativo nella storia e nelle storie.
È la proposta di Me-Mo, un nuovo magazine digitale che punta a raccontare in profondità grandi temi sociali, conflitti e crisi umanitarie. Un progetto che punta in primo luogo sulla potenza narrativa della fotografia, grazie al team di talenti da cui è nata l’idea. Una squadra di sei fotografi pluripremiati distribuiti tra Parigi, Barcellona e Torino: Manu Brabo, José Colon, Diego Ibarra, Guillem Valle, Maral Deghati e l’italiano Fabio Bucciarelli.
Il primo numero di Me-Mo (memo-mag.com) da oggi è disponibile gratis per gli abbonati all’edizione digitale de «La Stampa». Il magazine e il nostro giornale percorreranno poi molta strada insieme, grazie alla possibilità di sottoscrivere un abbonamento scontato a «La Stampa» insieme con le prossime edizioni di Me-Mo (i dettagli sono su lastampa.it/me-mo).
«Puntiamo a essere pionieri nel giornalismo di alta qualità unito alla tecnologia d’avanguardia», spiegano Bucciarelli e gli altri fondatori. Il primo numero dimostra la strada prescelta: reportage, mappe interattive, analisi e soprattutto grandi foto da navigare e «vivere», entrando dentro i luoghi, ascoltando le voci e muovendosi negli spazi del racconto. «Una caratteristica essenziale di Me-Mo - affermano i fotoreporter del team - è che l’interattiva è reciproca: l’utente e la macchina hanno entrambi un ruolo attivo». Non solo lettura, ma una vera e propria esperienza.
2. TRA L’ISTANTE E L’ASSOLUTO
Domenico Quirico per “la Stampa”
Invidio i fotografi. Marciamo insieme sulle strade accidentate e rischiose, tutta polvere e spine, dell’inesprimibile: la sofferenza umana, le guerre, le rivoluzioni, le catastrofi. Lì ci imbrattiamo di colori, odori, grida, silenzi, da cui facciamo discendere la segatura di una testimonianza.
Ci imbattiamo in Satana e Dio, che spesso appaiono fianco a fianco. Sono luoghi dove abita solo l’angoscia e la pietà è come un lontano rumoreggiare di obblighi mancati. Dal cielo gocciola la disperazione. La piccola scintilla di buona volontà che servirebbe per raccontare, descrivere, è indescrivibilmente lontana, su un altro pianeta. Li incontro, spesso più numerosi di noi che manovriamo la penna e il computer. Tutti lavoriamo, dunque, con qualcosa che è collegato con l’identità e la morte. Ovvero ciò che costituisce l’insolubile problema filosofico.
Io guardo: loro guardano e, zac, immobilizzano, imprimono, fermano. Ecco: li invidio perché questi compagni di viaggio, i reporter, tra i vari modi in cui l’uomo rappresenta la sua vita, sono assai più vicini di me all’abolizione del tempo.
La fotografia, come il racconto giornalistico scritto, è in guerra perenne con il tempo: per abolirlo, fermandolo, guerra umile, quotidiana, perennemente in agguato, virtuosamente invadente rispetto a ciò che l’uomo costruisce e disfa, perde o accumula nel suo operare. Qualche volta guerra violenta. Nei luoghi che frequentiamo c’è l’idea, non primitiva, intelligente, che quella scatola possa catturare una parte qualunque della tua essenza e quindi inevitabilmente te ne privi. Ciò che guadagna il fotografo, insomma, lo perde il soggetto. Le macchine fotografiche come la paura e, questa, gli uomini di quei luoghi la conoscono bene. Mangiano l’anima.
Una fotografia è quanto di più veristico e oggettivo esista, le immagini e gli uomini «imprigionati» nei reportages di Memo sono incontrovertibilmente veri, nei loro gesti, nella loro morte, nel loro uccidere, ancor più che nelle parole scritte, veri eternamente. La memoria si aggrappa loro e l’evento diventa, per transustanziazione, la fotografia che lo rappresenta. Come per molte immagini dei reportages di questo debutto: Gheddafi, ad esempio, il cui scempio, la sua nemesi infame, saranno per sempre lo scatto di Fabio Bucciarelli.
La Storia, via via che si ispessirà come un albero, cerchio dopo cerchio, per lo scorrere del tempo, vi farà ricorso appunto per sopravvivervi, viva, pulsante, vera. La fotografia diventa il centro, il luogo geometrico di quelle esistenze. Come è avvenuto per il miliziano di Robert Capa e la bimba vietnamita o i marines con la bandiera che fluttua per un vento senza pause.
Eppure di quella realtà la fotografia è anche la fuga: verso l’ignoto, verso il mistero, verso l’invisibile. Non per nulla il verista Capuana si portava la macchina fotografica nelle sedute spiritiche: uno squarcio nel massimo del visibile. E allora l’umile racconto scritto, accompagnandola e integrandola, servirà a spiegare le confuse, fatali gravidanze della Storia.