UN NUOVO AFFARE LOCKHEED? – CHE NE DICE RIGOR MONTI DEL MINISTRO DI PAOLA, UN AMMIRAGLIO SOPRAVVISSUTO SIA A PRODI CHE A BERLUSCONI, CHE VUOLE CONCLUDERE L’ACCORDO-FREGATURA PER L’ACQUISTO DEI CACCIA F35? - NORVEGIA, DANIMARCA, CANADA E GLI STESSI STATI UNITI CI RIPENSANO, CI CASCA SOLO L’ITALIA: GLI AEREI SONO DA PERFEZIONARE E IL PREZZO (GIÀ SALITO DA 80 A 130 MLN $) RISCHIA DI LIEVITARE ANCORA – AGGIUNGERE LE FORTI PRESSIONI DELL’AZIENDA PRODUTTRICE DEI VELIVOLI, LA STATUNITENSE LOCKHEED MARTIN, PER INDURRE I VARI PAESI A FIRMARE I CONTRATTI…

1 - LA LOBBY DEL JET BIDONE L'AFFARE È NON COMPRARLO
Daniele Martini per Il Fatto

I più arrabbiati sono i parlamentari norvegesi. Quando si sono accorti che il governo aveva fornito stime e dati fasulli per convincerli a dare il via libera definitivo all'acquisto del cacciabombardiere F35 Joint Strike Fighter, hanno reagito in modo severo: l'acquisto non è stato autorizzato e il programma di partecipazione al più costoso aereo della storia è stato sospeso. Forse ne riparleranno nel 2014 sulla base di analisi più rigorose. I norvegesi non sono soli sulla linea del ripensamento.

QUELLI CHE SI SFILANO
Molti degli otto paesi che partecipano al megaprogetto dei 3.200 caccia (2.443 solo per gli Usa) stanno riflettendo se il gioco valga la candela. In Italia, invece, sembra che l'acquisto di 131 velivoli con un costo vivo di almeno 15 miliardi di euro fino al 2023 (metà della manovra Monti), debba procedere quasi per forza d'inerzia nonostante molte cose siano cambiate, e non in meglio, da quando l'idea del cacciabombardiere fu lanciata 16 anni fa. Da allora sono mutate in peggio soprattutto le disponibilità economiche del bilancio pubblico e quello che allora poteva sembrare un impegno finanziario grave, ma tutto sommato affrontabile, oggi rischia di apparire uno sforzo intollerabile. Quasi uno spreco, considerato che nello stesso momento agli italiani vengono chiesti sacrifici durissimi proprio per il risanamento delle finanze pubbliche.

LE PRESSIONI E GLI AFFARI
Anche in Danimarca hanno ritenuto opportuno frenare e rinviare al 2014 ogni decisione vincolante. E pure in Australia stanno procedendo con i piedi di piombo, soprattutto da quando la stampa ha rivelato l'esistenza di forti pressioni dell'azienda produttrice dei velivoli, la statunitense Lockheed Martin, sui decisori di quel paese per indurli a firmare i contratti definitivi. Per non parlare del Canada dove il servizio studi del Parlamento ha scoperto che la manutenzione e le spese d'esercizio fanno triplicare i costi di ogni aereo nell'arco della sua vita, e dove quindi hanno cominciato a spulciare le intese finora firmate per individuare la strada più semplice per sfilarsi eventualmente del tutto dall'impresa.

Perfino negli Stati Uniti che pure sono il paese culla dell'F35, dove il progetto è stato pensato ed elaborato e dove l'aereo verrebbe prodotto negli stabilimenti Lockheed Martin di Fort Worth vicino a Dallas, le tetragone convinzioni di un tempo stanno lasciando il passo a un atteggiamento più pragmatico.

Soprattutto dopo che sono diventate di dominio pubblico le conclusioni del Quick Look Review, il rapporto sull'F35 di cui Il Fatto ha svelato l'esistenza mercoledì 28 dicembre. Quello studio commissionato dal Pentagono dimostra che il più sofisticato aereo della storia non funziona ancora come dovrebbe e che per eliminare tutti i difetti riscontrati ci vorranno altro tempo e altri soldi. Quattrini che faranno lievitare il prezzo finale di ogni aereo già salito nel giro di pochi anni da 80 milioni di dollari a 130 considerata la media delle tre versioni proposte (A, B e C).

I PATTI DI WASHINGTON
In Italia potrebbe esserci una via d'uscita indolore dall'affare F35, senza il pagamento di penali o con costi minimi, a patto che il governo lo voglia. La decisione spetta al nuovo ministro della Difesa, l'ammiraglio Giampaolo Di Paola, che però è considerato uno dei più strenui difensori del programma. Intervistato da Radio 24 Di Paola ieri si è detto disposto a una revisione dei programmi militari, senza tabù di sorta, ma alla domanda se la rivisitazione avrebbe riguardato anche gli F35 ha messo le mani avanti: "Non capisco e non condivido la caccia all'untore a uno specifico programma". Nel 2002 (governo Berlusconi) fu proprio Di Paola, allora segretario generale della Difesa, a firmare a Washington il primo accordo per la partecipazione italiana alla fase di sviluppo del cacciabombardiere e per questo fu indicato dal direttore americano del progetto come il "formidabile sostenitore del Joint Strike Fighter in Italia".

Cinque anni dopo (governo Prodi ), il sottosegretario Giovanni Lorenzo Forcieri firmò un altro Memorandum of Understanding. In quel documento rintracciato da Francesco Vignarca di Altreconomia si stabilisce tra l'altro che qualsiasi Stato può "ritirarsi dall'accordo con un preavviso scritto di 90 giorni".

MISSIONE NUCLEARE
Nella peggiore delle ipotesi l'Italia potrebbe essere costretta a sborsare un contributo una tantum di circa 900 milioni di euro. Che si aggiungerebbero ai 2,7 miliardi già spesi per lo sviluppo dell'F35, compresi gli 800 milioni per l'impianto di Cameri (Novara) dove l'Alenia (Finmeccanica) dovrebbe produrre l'ala sinistra e assemblare alcuni velivoli destinati al mercato europeo. Al di là dei costi, però, molti si chiedono se l'F35 sia adeguato alle esigenze del sistema difensivo italiano. Il cacciabombardiere è un concentrato di tecnologia pensato soprattutto per missioni d'attacco, comprese quelle nucleari. Può essere armato con le bombe atomiche B61 custodite in vari siti europei. In Italia ce ne sono un'ottantina a Ghedi e Aviano, anche se nessun governo ne ha mai ammesso ufficialmente l'esistenza.

2 - DI PAOLA, LA CORAZZATA A STELLE E STRISCE
Paola Zanca per "il Fatto quotidiano"

La prima volta che è entrato nei palazzi della politica è finita con la guerra in Kosovo. Adesso, per noi che siamo l'avamposto americano in un Mediterraneo che ribolle, lo raccontano di nuovo come l'uomo giusto, al momento giusto, nel posto giusto. Per capire il legame tra Giampaolo Di Paola, ministro della Difesa, e gli ambienti del Pentagono e della Casa Bianca basta scorrere il suo curriculum. Nato a Torre Annunziata nel Ferragosto di 68 anni fa, è entrato alla Accademia Navale quando ne aveva 19.

Da allora non si è più tolto la divisa, fino a oggi che veste i panni da ministro. I sommergibili della Marina, d'altronde, li ha abbandonati presto per tuffarsi nel palazzo. Da vent'anni vive ai vertici delle forze armate. È passato indenne da Prodi a Berlusconi. Nel 1998 diventa capo di Gabinetto prima del ministro Carlo Scognamiglio, durante il governo D'Alema (siamo alla vigilia delle bombe su Belgrado) poi del suo successore, Sergio Mattarella, quando a palazzo Chigi c'è Giuliano Amato. Poco prima che al governo arrivi Berlusconi, nel 2001, Di Paola viene nominato segretario generale della Difesa, ovvero Direttore nazionale degli armamenti: il capo assoluto della gestione tecnico-amministrativa della Difesa, programmi di acquisto compresi.

Una nomina che aveva "soddisfatto anche il Polo", come riportano le cronache dell'epoca: solo il senatore di Forza Italia Vincenzo Manca era "perplesso": "Pur trattandosi di una personalità di indubbio valore - diceva a proposito di Di Paola - non sembrava avere anzianità di grado tale da essere preferito". A gestire la Direzione nazionale Armamenti, comunque, resta tre anni. Ed è lo stesso governo Berlusconi a nominarlo Capo di Stato maggiore della Difesa. Sarà invece il ministro Parisi (alla Difesa per Prodi dal 2006) a prorogargli l'incarico di quattro mesi per permettergli di presentare la sua candidatura a presidente del Comitato militare della Nato . Ottenuta, ça va sans dire.

Lo considerano uno dei massimi ispiratori del cambio di strategia della politica di Difesa nazionale: dalle azioni "stanziali" alla scelta di armamenti che diano la possibilità di intervenire in maniera pronta nei teatri di guerra. "Ricordo l'intervista che un Capo di Stato maggiore dell'Esercito rilasciò al Corriere della Sera - dice Elettra Deiana, all'epoca deputata di Rifondazione Comunista in commissione Difesa - diceva: ‘A che ci servono tutti questi cacciabombardieri, queste portaerei? Se dobbiamo fare delle missioni di pace abbiamo bisogno di soldati che vadano là'. Chiaro, lui difendeva l'esercito, ma è indicativo del dibattito che le scelte di Di Paola avevano scatenato anche tra gli addetti ai lavori".

Ma cacciabombardieri e portaerei, non sono solo strategia, sono anche commesse di lavoro. "Non è mai stato insensibile agli interessi dell'industria americana - prosegue Deiana - Non a caso favorì l'acquisto dei Lockheed C 130 anziché degli Airbus europei". È il giugno del 2001 quando l'Italia, al contrario di Francia e Germania, decide di non firmare il memorandum d'intesa sul nuovo aereo da trasporto militare A400M.

"Non c'è alcun retro-pensiero - diceva Di Paola - si sapeva che non si sarebbe firmato ora il memorandum, ma spero che prima possibile, entro settembre, si arrivi alla firma. Speriamo sia una questione di settimane e non di mesi". Quella firma invece non arriverà mai. "L'europeismo non dipende da un aereo", tuonava l'allora ministro Antonio Martino. E così, per il suo "orientamento personale" e per "quello delle forze armate", la scelta italiana dirottò sull'americana Lockheed. "Noi crediamo in un'Europa forte - disse Di Paola il giorno del sì definitivo al programma F35 - ma anche nella cooperazione tra le due sponde dell'Atlantico".

Erano gli stessi giorni in cui prometteva che presto sarebbe arrivata per l'industria italiana la commessa per quattro aerei cisterna militari della Boeing, i Tanker. Il primo esemplare è entrato in servizio nel 2011, dieci anni dopo. Mentre gli aerorifornitori della francese Airbus arrivavano in tutta Europa, noi abbiamo aspettato due lustri. Chi? La Boeing, l'americana.

 

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