1- BOMBASTICO LIBRO INTERVISTA DELL’EX LEADER DEL PARTITO LIBERALE RENATO ALTISSIMO 2- TANGENTOPOLI CHE “CRESTA”: POLITICI E MANAGER “TRATTENEVANO” PER SÉ MAZZETTE 3- COME MAI LA SME ERA IN VENDITA A UN ACQUIRENTE CHE PAGAVA 7 VOLTE MENO IL SUO VALORE? PRODI: “PERCHÉ DE BENEDETTI HA UN TAGLIETTO SUL PISELLO CHE ALTRI NON HANNO” 4- CHIESI AD AGNELLI COME MAI UN FILOCOMUNISTA COME EZIO MAURO, ALLA DIREZIONE DELLA “STAMPA”? “PERCHÉ UN COMUNISTA IN REDAZIONE VAL BENE LA PA¬CE IN FABBRICA” 5- “SU TUTTI GLI AFFARI TRA L’ITALIA E I PAESI EX SOVIETICI C’ERA UNA QUOTA DESTINATA AL PCI” 6- “CUCCIA INVITÒ CRAXI A NOME DELLA GRANDE BORGHESIA AZIONISTA E ANTICLERICALE A GUIDARE UNA SORTA DI “RIVOLUZIONE”, PORTANDO AL GOVERNO LA SINISTRA SOCIALISTA E COMUNISTA E MARGINALIZZANDO LA DC. CRAXI RIFIUTÒ E VENNE ABBATTUTO”

Bombastico libro intervista dell'ex leader del Partito liberale Renato Altissimo con il giornalista Gaetano Pedullà, dal 27 giugno in libreria. A vent'anni da Mani Pulite, "L'inganno di Tangentopoli", edito da Marsilio, svela inediti retroscena di quella stagione, ancora oggi di concertante attualità per le analogie con il virus della corruzione, la debolezza della classe politica, la "facile soluzione" di svendere pezzi dello Stato per uscire dalla crisi. Eccone alcune anticipazioni.

TANGENTI AL PCI, UN FIUME DA MOSCA
Qui racconto per la prima volta una storia che mi vide personalmente coinvolto non come esponente politico, ma come imprenditore. Negli anni settanta lavoravo nell'azienda di famiglia, la Altissimo, una delle società leader in Europa nella produzione di fanaleria per auto.

Un giorno fui contattato da un tale ragionier Bianchi, a nome di una piccola azienda di import/export di Milano, che mi chiese un appunta¬mento e mi venne a proporre di entrare nel mercato jugoslavo. Nel Paese di Tito c'era un importante produttore di auto (su licenza Fiat), la Zastava, di cui avevamo tentato più volte di diventare fornito¬ri. Sempre però senza successo.

Il ragionier Bianchi pose subito in chiaro le cose. Se volevamo lavorare con quella azienda c'era solo un modo: il 3% delle commesse andava versato su un conto svizzero intestato ad alcune persone che avrei dovuto incontrare in Jugoslavia; il 2% andava alla società del ragionier Bianchi e un altro 5% su un altro conto, pure questo in Svizzera, di pertinenza del partito.

Quale partito?
Il ragionier Bianchi mi disse candidamente: Partito comunista italiano. Mi sembrò incredibile. E per ve¬rificare che il mio interlocutore dicesse il vero andai personalmente a Belgrado per incontrare i generali che avrebbero potuto consentire quell'affare. Ogni dettaglio dell'offerta era vero. Questo episodio, sep¬pur minimo, testimonia come su tutto quanto veniva intermediato tra l'Italia e i Paesi ex sovietici c'era da accantonare una quota per il Pci. E siccome parliamo di Paesi ricchi di materie prime, a cominciare da gas ed energia, è chiaro che di soldi dovevano arrivarne tanti.

LA "CRESTA" SU TANGENTOPOLI
C'erano in vista le elezioni del 1992 e andai a trovare Sama - come era d'uso con i vertici dei grandi gruppi industriali - per presentargli il programma del mio partito, soprattutto sulla politica economi¬ca. Lui mi trattenne pochissimo, mostrandosi poco interessato al programma, ma accompagnandomi cordialmente alla porta del suo ufficio mi consegnò una valigetta dicendomi che era un contributo per la prossima campagna elettorale del Pli.

Appena rientrato a Torino consegnai la valigetta al funziona¬rio del partito che si occupava dell'amministrazione dei fondi elettorali. Tempo dopo, al processo fui chiamato a rispondere per questo finanziamento e condannato per aver preso 200 milioni di lire. Anche se in realtà in quella valigetta non c'erano tutti quei soldi.

Che vuol dire? Quanto c'era davvero in quella valigetta?
C'erano 150 milioni di lire. Al processo però non lo rivelai perché non volevo mettere in difficoltà il fun¬zionario del mio partito, che avrebbe potuto essere accusato di aver preso per sé una parte della somma.

Dunque, lei rivelò al processo di aver ricevuto 200 milioni di lire, ma nella valigetta ce n'erano solo 150. Come mai? Qualcuno aveva fatto la cresta persino sui soldi destinati al finanziamento della politica?
È la spiegazione più plausibile. D'altra parte, poi ho scoperto che questo era un comportamento diffu¬so. Se c'erano i politici che trattenevano per sé una parte o la totalità dei soldi che intascavano, c'erano anche manager o funzionari delle imprese che allo stesso modo approfittarono di quell'andazzo, tenen¬do per sé qualche mazzetta.

Con i soldi che arrivavano, che ci facevano i partiti? I dirigenti potevano usare quelle somme a piacimento?
Assolutamente no. E poi c'era poco da usare... quei soldi erano sempre molto meno di quanto co-stassero segreterie, campagne elettorali, stipendi ai dipendenti, materiale per la propaganda... Certo un uso disinvolto, come quello che ha potuto fare vent'anni dopo il tesoriere della Margherita Luigi Lusi, non era proprio pensabile.

LA POLITICA DA "ABBATTERE"
Craxi diventa il simbolo della vecchia politica corrotta. La gente gli tira le monetine...
Che paradosso! Craxi che voleva modernizzare il Paese trasformato in simbolo del vecchio... Ma tutto ha una sua logica. Uno come lui non avrebbe mai consentito quell'assalto alla diligenza, quel grande banchetto ai danni dello Stato, che avvenne poco dopo grazie al «nuovo» corso della politica, imposto dalle inchieste e dai tribunali.

Un episodio illuminante in questo senso lo racconta Paolo Cirino Pomicino nel suo libro Dietro le quinte. È Craxi a parlare. «Era l'estate del 1990. Venne un grande ami¬co imprenditore e mi portò un messaggio di Enrico Cuccia. In pratica mi invitava a nome della grande borghesia azionista e anticlericale a guidare una sorta di "rivoluzione", portando al governo l'intera sinistra socialista e comunista e marginalizzando la Dc, che nel frattempo avrebbe dovuto frantumarsi».

Il presidente di Mediobanca, dunque, cercava già allora uno spazio di espressione politica per quei circoli azionisti costretti, da cinquant'anni, a muoversi da padroni soltanto nel recinto finanziario tra via Filo¬drammatici, Fiat e Banca d'Italia. «Ma Craxi lasciò cadere il messaggio: in esso vedeva il primo passo dell'asservimento della politica agli interessi econo¬mici dei poteri forti». Per tutti questi motivi Craxi era il vero ostacolo da abbattere. E fu abbattuto.

PRODI, DE BENEDETTI E QUEL TAGLIETTO SUL...
Era il 1985 e all'epoca ero ministro dell'Industria. A gennaio fui invitato a Nizza a una cena organizzata da Tito Tettamanti, un amico svizzero, e qui conobbi l'amministratore delegato della Heinz, un colosso mondiale del settore alimentare che pro¬duce, tra l'altro, il famoso Ketchup. Questo signore mi fece i complimenti per gli orientamenti espressi dal governo - era premier Bettino Craxi - in ma¬teria di privatizzazioni e mi rivelò di essere molto interessato all'acquisto della Sme, fiore all'occhiello dell'industria agroalimentare italiana, sotto il con¬trollo pubblico.

Suoi erano importanti marchi come Motta, Alemagna, Bertolli, i supermercati Gs e Au¬togrill. Gli spiegai subito che una possibile vendita non era competenza del Ministero dell'Industria, ma di quello delle Partecipazioni statali. Comunque avrei fatto presente la manifestazione d'interesse al profes¬sor Romano Prodi, allora presidente dell'Iri, a cui faceva capo la Sme.

Gliene parlò?
Certo. Prodi mi invitò a colazione nella foresteria della sede dell'Iri a via Veneto; colazione alla quale parteciparono anche Natalino Irti, membro del Con¬siglio di presidenza dell'istituto, e Michele Tedeschi, direttore dell'Iri. La posta in ballo era alta e gli ame¬ricani erano disponibili a pagare bene. Una grossa opportunità per le casse dello Stato. Prodi però si fece una grande risata e ci disse subito che non era possibile nemmeno minimamente pensare a una ces¬sione.

La Sme, ci rivelò, era zeppa di liquidità e l'Iri non avrebbe mai potuto venderla perché assoluta-mente indispensabile per far cassa e comunque essen¬ziale per gli equilibri del gruppo. Il prezzo, inoltre, era molto elevato. La valutazione che ne fece fu di circa 3500 miliardi di lire. Concluso l'incontro, chia¬mai al telefono il mio amico Tettamanti e gli spiegai che l'Iri non intendeva vendere la Sme, ritenendola fortemente strategica in termini finanziari.

Peccato, fu la risposta, perché gli americani avrebbero pro¬babilmente potuto pagare la cifra ipotizzata dal pro¬fessor Prodi. Dopo qualche mese ricevetti attraverso la batteria del Viminale una telefonata dell'ingegner De Benedetti. «Renato, volevo informarti che abbiamo concluso ieri
l'accordo per acquisire la Sme», mi disse candidamente. Cercando di nascondere la sorpresa, risposi di essere compiaciuto in quanto da sempre favorevole alla privatizzazione dell'imponente apparato industriale dello Stato. Subito dopo però scoprii che la Sme era stata venduta non per i 3500 miliardi di lire ipotizzati da Prodi, ma per appena 497 miliardi, per di più pagabili in cinque anni.

Ne chiese conto al professor Prodi?
Certo. Fu proprio lui a telefonarmi. «Renatino, volevo dirti che ho venduto la Sme. Sarai contento finalmente», mi disse con tono ironico. Io però gli chiesi subito come mai il gruppo era stato venduto a un acquirente che pagava sette volte meno il valore stimato dall'Iri, mentre c'erano altri soggetti interes¬sati e pronti a offrire di più. «Perché De Benedetti ha un taglietto sul pisello che altri non hanno», fu la risposta di Prodi, alludendo, immagino ancora iro¬nicamente, a presunte pressioni di consorterie ebrai¬che. Una versione che non stava in piedi. Come tutta quell'operazione che infatti crollò. Merito di Craxi, che chiamò molti, me compreso, per sollecitare Ba¬rilla a partecipare con Ferrero e Berlusconi a una cordata capace di avanzare una controproposta.

MAURO, UN COMUNISTA IN REDAZIONE
La Dc, il Psi, ma anche voi che avevate fatto parte di molti governi, possibile che siate rimasti improvvisamente senza un megafono, senza la possibilità di spiegare le vostre ragioni?

Si chiusero tutte le porte. Per dare un'idea posso raccontare un episodio. Dopo aver ricevuto un avviso di garanzia, riportato con enfasi da tutta la stampa italiana, cerco il direttore della «Stampa», Ezio Mauro, e gli chiedo di dire la mia dalle pagine del suo giornale. «Non mi faccia perdere tempo - fu la risposta - non c'è niente da spiegare. I soldi li ha presi o no?»

I processi si facevano così. I giornali erano i tribunali. E il filo diretto con le procure non era un mistero per nessuno. Bastava vedere gli atti che pubblicavano. Verbali di interrogatori, intercettazioni telefoniche... tutti documenti che in gran parte non sarebbero potuti uscire dai tribunali.

Si è fatto un'idea di come sia avvenuta questa saldatura tra grande stampa e tribunali?
L'Italia è un Paese che non ha editori puri. E allora come ora i giornali servivano a tutt'altro che a informare i lettori. Ne ebbi una prova lampante proprio con Mauro. Poco dopo la sua nomina alla direzione della «Stampa», ne avevo parlato con l'avvocato Agnelli. «Come mai - gli chiesi - avete messo un filocomunista al timone del giornale di Torino?». «Perché un comunista in redazione val bene la pa¬ce in fabbrica» mi rispose l'avvocato. Anche così si usavano i giornali. E la sinistra aveva occupato molte posizioni di comando, inserendo centinaia di giornalisti, molti dei quali in contatto diretto con le procure.

 

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