DE PROFUNDIS MONTIS - CACCIARI CELEBRA LE ESEQUIE: “DOVEVA RAPPRESENTARE LA PROTESTA SERIA NEI CONFRONTI DI TUTTE LE FORZE POLITICHE DELLA SECONDA REPUBBLICA. E INVECE SI È ALLEATO CON CASINI E FINI” - “AL PROF MANCA LA NECESSARIA FORZA RETORICO-PERSUASIVA, LA CAPACITÀ DI TRASFORMARE I PROGRAMMI IN PAROLE-CHIAVE” - I COSTITUZIONALISTI: “LA PROROGA DEL GOVERNO MONTI NON PUÒ ANDARE OLTRE I DUE-TRE MESI”…

Massimo Cacciari per "l'Espresso"

Il trionfo grillino rende superfluo discettare su ciò che Monti avrebbe potuto fare se avesse raggiunto i traguardi sperati alla vigilia e previsti dai nostri fantastici sondaggisti. Anche col 15 per cento, poco o nulla: lo stallo, almeno al Senato, era inevitabile. Ma perché un esito tanto modesto? E ora? La ragione del flop mi pare chiarissima; Monti aveva un solo, vero asso da giocare: quello della netta discontinuità rispetto a tutte le coalizioni, destra e sinistra. Doveva rappresentare, in qualche modo, la protesta seria, costruttiva, europeista nei confronti della palese impotenza e decrepitezza degli schemi ideali e programmatici di tutte le forze politiche della seconda Repubblica.

La popolarità di cui godeva all'inizio della sua Presidenza del Consiglio dipendeva da questo. È finito col caratterizzare la sua immagine in senso opposto, fin dal primo istante, presentandosi (dopo defatiganti incertezze, che certo non lo hanno aiutato) come leader di una mini-coalizione in perfetta continuità con i disastri del non più recente passato, zavorrata dai Casini e dai Fini.

Alleati che ha finito col vampirizzare, senza probabilmente sottrarre un voto alla destra. Chi lo abbia consigliato in questa mossa suicida non saprei - forse la paura di non farcela organizzativamente da solo, forse la sopravvalutazione del peso reale di certe componenti della storia politica italiana. Ma più probabilmente sono emersi tutti i limiti del Monti politico, tutta la fragilità della sua "vocazione" politica.

Vi può essere in lui etica della responsabilità, coscienza anche drammatica della crisi ormai culturale-antropologica del Paese, ma vi manca del tutto la necessaria forza retorico-persuasiva, la capacità di "incarnare" i programmi, di trasformarli in parole-chiave, di accordarli al vissuto della crisi, alle sue figure concrete. Le gaffe in questo senso sui giovani e sul precariato sono emblematiche. Manca in lui il territorio della politica - così come manca al Pd, con la solita eccezione dell'Appennino tosco-emiliano.

E il territorio, non rappresentato più neppure dalla Lega (esempio clamoroso: nella sua patria trevigiana la Lega crolla dal 48 per cento delle Regionali al 13) si rovescia col più classico dei voti di opinione su Grillo. Sarebbe forse servito al centro-sinistra un centauro virtuoso fatto di Monti e Renzi - forse bastava un Renzi (e faccio auto-critica per non averlo capito). Ma ora? Se la crisi precipita e la situazione economico-finanziaria diviene ingovernabile, il ritorno rapido alle urne ("alla greca") sarà inevitabile.

Monti potrebbe certo puntare a un risultato migliore. Molti concittadini, a quel punto, comprenderebbero che non è salubre giocare col voto di pura protesta. Ma dovrà cambiare radicalmente immagine, consiglieri, referenti sul territorio. Insomma, "convertirsi" in capo politico. Molto arduo, per le ragioni suddette. Altrimenti? Nessuna possibilità di nuovi governi "tecnici", né di mega-compromessi storici.

Un ruolo di Monti come ministro in un governo di minoranza presieduto da Bersani (o chi per lui del Pd)? Potrebbe risultare utile come segnale al mondo che l'Italia non è ormai la nave dei folli, ma allontanerebbe anche le già remotissime possibilità di un'intesa su qualche punto con Grillo, almeno al fine di non rendere traumatica la fase che si apre. Grillo potrebbe essere disposto a una soluzione a termine "more siculo", ma non certo con un Monti nel governo. Forse l'unica mediazione praticabile tra Pd e Grillo (e che altro tentare, ammesso sia evitabile la morte immediata della legislatura?) resta Vendola - il quale ritiene addirittura che sia Monti la causa delle sventure elettorali della sinistra.

Ma proprio il non avere al momento alcun futuro politico è l'unica chance di Monti: quella di rappresentare la condizione di estraneità, di "esiliati" in patria di tutti coloro che hanno compreso le ragioni della nostra crisi di sistema, lo spappolamento delle vecchie geografie politiche e non vogliono arrendersi alle derive delle retoriche e delle demagogie. Che una simile posizione possa assumere rilievo elettorale e politico in un Paese allo sbando, non so. Che Monti ne sia capace, meno ancora. Ma so che se si metterà ora a giocare nel Palazzo, il suo mezzo fallimento odierno diventerà una bancarotta patetica.

2 - IL PROFESSORE NON PUÃ’ RESTARE A LUNGO
Francesco Grignetti per "La Stampa"

Inutile illudersi, la Seconda Repubblica è davvero morta. Nel senso che mai come questa volta emerge il ruolo che la Costituzione riserva al Capo dello Stato. L'annuncia al «suo» mondo anche il costituzionalista Stefano Ceccanti, senatore Pd ancora per due settimane: «Fassina - scrive su Twitter - crede di essere il presidente della Repubblica con diktat su incarichi e scioglimenti. Fino a prova contraria l'art 92 esiste ancora, incarichi e nomine li fa Napolitano».

«Forse non era mai successo prima - osserva Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale che un risultato elettorale non netto coincidesse con la scadenza del mandato del Quirinale, ma sono due problemi diversi». E adesso? «Il Presidente può e deve dare l'incarico al più presto e dopo ci può essere una fase più o meno lunga di ricerca di accordi politici».

«Premesso che è saggio - ragiona ad alta voce un altro ex presidente della Corte quale Antonio Baldassarre - concedere ai partiti un periodo di riflessione, questo non può essere infinito. Gli affari correnti sono un tale limite all'esercizio di governo, che prima si fa e meglio è. Anche perché incombe la crisi economica».

E' l'opinione anche di Cesare Mirabelli, anch'egli ex presidente della Consulta: «L'attuale situazione è transitoria, non solo temporanea. Non si può restare a lungo con un governo senza la pienezza dei poteri. Oltretutto, con l'insediamento delle nuove Camere, sarebbe evidente il «disallineamento» con chi ha avuto la fiducia da un Parlamento che non c'è più».

Per quanto tempo Monti può dunque restare a palazzo Chigi? «Nella Costituzione non c'è nessun vincolo - risponde Mirabelli - ma i pochi precedenti sono di due-tre mesi. Dopo di che, se non c'è un governo, si deve andare di nuovo ad elezioni perchè la fisiologia del sistema implica un rapporto di fiducia tra governo e parlamento». Gli fa eco un altro ex presidente della Consulta quale Alberto Capotosti: «Non è previsto che ci sia un vuoto di governo.

Infatti Mario Monti è ancora in carica per disbrigare gli affari correnti e così sarà fin quando non ci sarà un altro presidente del Consiglio. Poi può anche accadere che il presidente designato sia battuto al voto di fiducia, ma il Capo dello Stato avrebbe già firmato il decreto con cui si accettano le dimissioni dell'uscente e si nomina l'entrante».

E Baldassarre: «La differenza sostanziale con le alchimie della Prima Repubblica è che qui non si vede neanche la coalizione potenziale. D'altra parte non avrebbe senso tornare a votare con questa legge elettorale. Pd e Pdl non hanno voluto fare la riforma; ora si accorgeranno della miopia di quella scelta».

Questa volta il ricambio di Parlamento si sovrappone al ricambio del Quirinale. E il cosiddetto "semestre bianco" impedisce di tornare a votare negli ultimi sei mesi di mandato presidenziale. «Ma al più tardi ai primi di maggio - avverte Capotosti - avremo un nuovo Presidente. Per l'elezione di Giovanni Leone, che fu la più laboriosa, non s'è andati oltre i dieci-quindici giorni».

Il professor Onida vede una sola possibilità: «Un accordo tra Bersani e Grillo. Se quest'ultimo ci sta, Bersani alla Camera non avrebbe problemi e al Senato sarebbe sufficiente che i grillini si astenessero. In questo modo non voterebbero la fiducia, ma permetterebbero al nuovo governo d'insediarsi per poi valutare volta a volta i suoi provvedimenti. Per avere la fiducia, un governo deve avere il via libera della maggioranza dei presenti. Accadde già nel ‘76 con un governo Andreotti».

Il Pdl potrebbe però opporsi facendo uscire dall'Aula i suoi senatori e così far mancare il numero legale. «Anche questa ipotesi - replica Onida - non è assoluta. Se Grillo ci sta, è sufficiente che 17 o 18 dei suoi senatori restino in Aula, anche votando contro, purché garantiscano il numero legale».

 

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