ERA IL 1985 QUANDO MANGANELLI OSÒ SVELARE I LEGAMI MANGANO-BERLUSCONI-DELL’UTRI QUANDO NESSUNO TOCCAVA L’AMICO DI CRAXI

1. MANGANELLI, IL RAPPORTO DIMENTICATO
Marco Lillo per www.fattoquotidiano.it

Oggi mi piace ricordare Antonio Manganelli con questa immagine del rapporto Criminalpol del 28 marzo 1985 da lui firmato dopo una lunga indagine sugli affari della mafia a Milano.
A pagina 48 scriveva: "Si è già fatto cenno ai rapporti tra Rapisarda e Marcello Dell'Utri....si è accennato anche ai provati collegamenti tra il mafioso Vittorio Mangano e il Dell'Utri e alla posizione di quest'ultimo quale uomo di fiducia del noto Silvio Berlusconi".

Era il 1985 non era facile scrivere queste cose sul collaboratore del ricchissimo imprenditore Silvio Berlusconi (non indagato) che era un amico intimo di Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio all'apice della sua potenza. Il rapporto metteva nel mirino Filippo Alberto Rapisarda per i suoi rapporti con il clan Cuntrera-Caruana e raccontava anche i rapporti di affari del finanziere siciliano con Marcello Dell'Utri.

Le accuse contenute nell'informativa di Manganelli furono rigettate con una motivazione irridente da un giudice che poi sarà indagato per corruzione proprio con Rapisarda. Successivamente però il rapporto di Antonio Manganelli tornerà utile nell'inchiesta sui rapporti tra la mafia e Marcello Dell'Utri.

A prescindere dagli esiti di quelle indagini, e a prescindere dalle cariche ricoperte da Manganelli anche con i governi Berlusconi, quel rapporto è utile per ricostruire la figura del capo della polizia. Eppure non è mai citato né dai sostenitori né dai detrattori di Manganelli, perché è scomodo per entrambi. Per questo era giusto ripubblicarlo.


2. ADDIO AL POLIZIOTTO SENZA MANGANELLO
Francesco La Licata per "La Stampa"

È morto ieri mattina il capo della Polizia Antonio Manganelli: 62 anni, da febbraio era ricoverato all'Ospedale San Giovanni di Roma per la rimozione di un ematoma cerebrale. Profondo cordoglio è stato espresso dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano che parla di «uomo di alta professionalità e altissimo senso delle istituzioni», e tra gli altri anche dal premier Mario Monti

Antonio Manganelli è stato uno dei poliziotti (non tantissimi) a cui va dato il merito di aver «defascistizzato» - scusate la parola desueta - la polizia italiana, a lungo condizionata da un ordine pubblico che nel dopoguerra risentiva dell'ossessione del «pericolo rosso».

Per anni gli «sbirri» avevano abbandonato il dovere istituzionale delle inchieste antimafia e in difesa della «giovane costituzione repubblicana», per dedicarsi al contenimento dell'avanzata socialcomunista. Fino all'avvento di un gruppo di «sbirri diversi» che si gettarono a capofitto nelle grandi inchieste sul potere mafioso-politico, dopo il tramonto definitivo del terrorismo.

Ecco, tra gli sbirri «diversi» (da Gianni De Gennaro ad Alessandro Pansa, a Nicola Cavaliere) Manganelli era considerato lo «sbirro gentile». Certo, per via del suo sorriso comunicativo ma anche per la sua estrema compostezza nell'affrontare anche le insidie più difficili. Mai al di sopra delle righe, mai un decibel in più del consentito, mai un atteggiamento di prevenzione neppure in direzione dei sospettati più compromessi. Seguiva le regole, Manganelli. Non forzava il codice non tentava il condizionamento del magistrato titolare di un'indagine.

Fu Palermo, per sua pubblica ammissione, la scuola che lo formò. E quando si dice Palermo è da intendere la formidabile sinergia fra Giovanni Falcone e Gianni De Gennaro. Manganelli aveva poco più di 40 anni, trascorsi fra Criminalpol e Servizio centrale, ed era parte integrante dei «De Gennaro boys». La guerra contro Cosa nostra andò avanti: un latitante dopo l'altro.

Quando lui e Pansa andarono a bussare sulla spalla del dormiente Nitto Santapaola, re della mafia catanese sorpreso in un casolare nelle campagne tra Catania e Siracusa, il boss si arrese e fece i complimenti raccomandando soltanto un trattamento rispettoso per la moglie. Raccomandazione superflua, perchè Antonio Manganelli la propria umanità la trasformava in una sorta di valore aggiunto. Nessuno dei boss ammanettati, fosse Piddu Madonia o Pietro Vernengo, ha potuto lamentarsi dello «sbirro gentile».

Il grigio ministeriale e la cravatta sulla camicia bianca, questo preferiva alla pistola e alla forza. «Rappresentiamo lo Stato» amava dire, «abbiamo il dovere di distinguerci quanto più possibile da quelli che incateniamo». La sua nomina a questore di Palermo, all'inizio degli Anni Novanta, fu accolta come una conseguenza naturale per quello che era stato il suo impegno in Sicilia, dove - tra l'altro - aveva provveduto alla gestione di pentiti di prima grandezza: da Buscetta a Totuccio Contorno, da Leonardo Messina a Francesco Marino Mannoia. Anche con questi, atteggiamento umano ma distaccato, senza cedimenti nè ammiccamenti. Se lo ricordano in tanti, Manganelli che entra nell'aula bunker dell'Ucciardone - le gabbie degli imputati del maxiprocesso strapiene e mute - accanto a Tommaso Buscetta, quasi a voler plasticamente rappresentare che don Masino non era più quello di prima, che si era arreso allo Stato e meritava rispetto.

Anche con Nino Calderone, pentito catanese, Manganelli instaurò un rapporto umano e professionale nello stesso tempo. Il boss, fratello del «segretario» della prima «cupola regionale» di Cosa nostra, era stato arrestato in Francia, dove si era rifugiato con la moglie e i figli. Proprio la moglie, Margherita, preparò il terreno per il pentimento del boss. Manganelli andò a Nizza e incontrò Calderone. «Lei è sposato, dottore?» fu la domanda del mafioso.

Alla risposta negativa «zu Ninu» replicò: «Bene, allora faccia conto di avere, da questo momento, moglie e tre figli. Perchè io glieli affido». Calderone è stato, forse, l'unico mafioso che ha veramente cambiato pelle. È morto a gennaio, non prima di aver telefonato per l'ultima volta a Manganelli.

Un rapporto bello e durevole, quello con Palermo. Da questore si sforzò di entrare nel cuore della città, come cittadino uguale a tutti gli altri. Aiutato da Adriana, splendida moglie, e da Manuela, figlia adolescente, ricordò alla borghesia come fosse possibile anche fare «cose buone». Fu il caso della nascita dell'Ismett (punto di eccellenza dei trapianti di fegato), voluta dal prof. Ignazio Marino che al Questore si rivolse per edificare una barriera protettiva attorno all'iniziativa che faceva gola a molti.

Poi fu la volta della direzione del Servizio per la protezione dei pentiti. Manganelli traslocò a Roma, sempre seguito dalla famiglia e dal fido Alex, superbo lupo bianco, e risolse il problema riportando il Servizio protezione ai suoi compiti istituzionali. Proprio allora Manganelli dichiarò la necessità di togliere ai magistrati inquirenti la responsabilità sulla gestione e sulle necessità primarie dei collaboratori, per evitare il pericolo di scambio di favori tra pentiti e inquirenti. Propugnò la necessità che - come negli Usa - fosse un corpo speciale a gestire la sicurezza dei collaboratori. Fu frainteso, e sospettato di aver voluto ingraziarsi il ministro Maroni, e la maggioranza di governo avversaria del pentitismo.

Fu nominato Capo della Polizia nel 2007, con l'accordo dei partiti di maggioranza e non. Era uscito indenne dalla catastrofe del G8 di Genova che costerà molto, in immagine, a Gianni De Gennaro e moltissimo, in senso stretto, a tanti funzionari (Gratteri e Caldarozzi su tutti) lanciati verso i vertici del Viminale.

Non esitò - con correttezza istituzionale, cioè dopo la sentenza della Cassazione - a chiedere scusa pubblicamente per ciò che accadde a Genova. E stessa umiltà dimostrò in occasione della tragica fine del tifoso Gabriele Sandri, ucciso da un poliziotto. Disse alla commemorazione: «Porto il peso della responsabilità di quella morte».

A Manganelli è stato contestato, un eccesso di trasporto verso il ministro leghista e un atteggiamento morbido in occasione dello scandalo sul «Corvo» del Viminale che ha portato alla sostituzione di Nicola Izzo, uno dei suoi vice, oggi indagato. «Nessuna assoluzione preventiva - spiegò Manganelli - ma neppure nessuna condanna sommaria. Saranno i magistrati a stabilire se ci sono colpe o no in una vicenda dove girano parecchi soldi che rendono impalpabile ogni verità». Poliziotto gentile, appunto.

 

Antonio Manganelli ANTONIO MANGANELLI Antonio Manganelli e Gianni De GennaroIl capo della polizia Antonio Manganelli MANGANELLIMARCELLO DELLUTRI Berlusconi nel con Marcello DellUtri Vittorio Mangano in tribunale nel 2000NICOLA CAVALIERE Giovanni FalconeBuscettanicola izzoRAPPORTO CRIMINALPOL DEL 28 MARZO 1985 FIRMATO DA MANGANELLI DOPO UNA LUNGA INDAGINE SUGLI AFFARI DELLA MAFIA A MILANO.jpg

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