MANICHEISMO SENZA LIMITISMO: L’ESPRESSO “BEATIFICA” LE TOGHE ROSA E MANDA ALL’INFERNO LE OLGETTINE

Paolo Biondani per "l'Espresso"

Da una parte c'è un gruppo di donne che fanno molto seriamente un lavoro molto difficile, credono nella giustizia e nella Costituzione più bella del mondo, si dimostrano capaci di gestire indagini pericolose e processi complicatissimi, vivono del loro stipendio di dipendenti statali, non cercano fama e non vogliono apparire, anche se sanno che verranno attaccate pubblicamente con frasi infamanti non appena dovranno applicare la legge anche al più potente.

Dal lato opposto della barricata si collocano le Olgettine, Coloradine, Meteorine e altre sedicenti ballerine, educate a usare il corpo per sfondare in televisione o addirittura in politica. Pronte all'esibizionismo più spinto per passare certe notti col sultano di Arcore, dividersi i soldi e poi insultarlo di nascosto. Capaci di deridere «gli operai che faticano per un salario cinque volte inferiore» alla busta di banconote che intascavano in una sera da un ultra-settantenne chiamato Papi.

E disposte a mentire sotto giuramento in tribunale, pur di favorire il miliardario imputato che continua a pagarle in blocco, fino ad accumulare un assurdo montepremi stimato in quasi 30 milioni di euro, dispensati a giovani bisognose che per coincidenza sono anche testimoni. Nel processo Ruby-Berlusconi, tra migliaia di atti, intercettazioni, prove bancarie, leggi ad personam e cavilli di avvocati-deputati, si sono viste e confrontate indirettamente anche due visioni antitetiche dell'universo femminile. Due Italie. O semplicemente le due facce opposte della Milano di oggi, dopo (o nonostante) vent'anni di berlusconismo.

Lunedì 24 giugno, mentre nella quarta sezione del tribunale di Milano risuonava il duro verdetto di colpevolezza di Silvio Berlusconi, condannato a sette anni per prostituzione minorile e per una concussione della questura commessa quando era capo del governo, il presidente Giulia Turri e le giudici a latere Carmen D'Elia e Orsola De Cristofaro avevano volti stanchi e occhi segnati dalla tensione, ma senza un filo di trucco.

Dopo 27 mesi di processo a ostacoli, con 50 udienze costellate di rinvii, ricusazioni, impedimenti e sette ore di camera di consiglio, sapevano che ad aspettare la loro sentenza c'erano falangi di telecamere e fotografi, eppure non hanno concesso nulla alla cosiddetta cultura dell'immagine. Berlusconi e i suoi pretoriani come Daniela Santanchè sono arrivati a parlare di «condanna a morte» e «plotone d'esecuzione», come se quelle tre signore del diritto avessero usato armi da fuoco invece dei codici, per applicare leggi non scritte da loro in un processo non scelto da loro.

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Lontana dai riflettori si è sempre tenuta la presidente Turri, che si è occupata di truffe e reati di strada e poi ha fatto per un decennio il giudice delle indagini preliminari (gip), firmando innovativi decreti di sequestro di beni all'estero e rinviando a giudizio, tra gli altri, l'ex parlamentare Pdl Massimo Maria Berruti, poi salvato dalla prescrizione: come giudice ha condannato gli assassini del finanziere dell'Opus Dei Gianmario Roveraro e si è avvicinata al mondo delle Papi Girls con i processi alle discoteche della coca e l'arresto del foto-ricattatore Fabrizio Corona.

Altrettanto schiva e severa la collega De Cristofaro, prima pm e poi gip, citata nelle cronache solo per le severe condanne inflitte ai chirurghi-killer della clinica privata Santa Rita. Carmen D'Elia si è formata con la presidente Luisa Ponti alla prima sezione, dove ha giudicato, sempre in silenzio, centinaia di bancarotte e reati economici, fino a trovarsi Berlusconi imputato di aver corrotto le "toghe sporche" di Roma: ma nel 2002, alla vigilia del verdetto, il centrodestra ha azzerato quel processo con il "lodo Schifani", poi dichiarato incostituzionale.

Una donna dal curriculum ben noto è Ilda Boccassini, il procuratore aggiunto che ha guidato l'inchiesta su Ruby e i soldi di Silvio. Con un maestro come Giovanni Falcone, fu tra i primi pm a indagare a Milano su Cosa Nostra, con l'indagine "Duomo Connection" affidata ai carabinieri del capitano Ultimo. Ama Lucio Battisti, la pasta fatta in casa e il mare di Ischia, ma è costretta a vivere sotto scorta dal 1992, quando chiese il trasferimento in Sicilia e fece arrestare e condannare i boss mafiosi della strage di Capaci.

Dopo aver criticato le indagini su via D'Amelio (mettendo per prima in dubbio i falsi pentiti, scoperti solo oggi, che hanno depistato tre maxi-processi per l'autobomba contro Paolo Borsellino), è tornata a Milano nel '95 per scoperchiare la corruzione tra i giudici di Roma, che ha portato alla condanna dell'ex ministro Cesare Previti. Da cinque anni guida le maxi-inchieste sulla 'ndrangheta in Lombardia. La vita blindata e tante condanne di criminali e assassini non sono bastate a evitarle l'accusa berlusconiana di essere "un cancro della democrazia": lei, non la mafia.

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo", anche se ora il tribunale le dà pienamente ragione, al punto da chiedere ai pm di indagare l'ispettrice Giorgia Iafrate, che ha giurato il contrario.

Una testimonianza giudicata falsa che non le ha certo danneggiato la carriera: da funzionaria di turno in centrale è diventata dirigente di una sezione della squadra mobile di Milano, quella che indaga sulla "criminalità diffusa".

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Quella delle Papi girls è decisamente un'altra Milano. Popolata di ragazze-immagine che spendono le buste di biglietti da 500 euro targate Berlusconi per comprarsi «25 paia di scarpe» o «un bustino che fa sbaragliare». Attendono la serata di Arcore scambiandosi messaggini del genere: «Vado in un sexy-shop e prendo un po' di cose per te e per me: più troie siamo e più bene ci vorrà».

Contano a migliaia i soldi distribuiti da Papi e invidiano «quelle che si sono fermate la notte e hanno avuto di più»: «A me due, alla Iris cinque, alla Aris nove... E alla Ruby sessanta, ma ti rendi conto?». «Ho avuto solo un bracciale d'oro con il diamantino, perché stanotte è rimasta la Raffaella: ma come fa a piacergli una così popolana?».

Fra i 32 testimoni che il tribunale ha chiesto di incriminare per falsa testimonianza (ma vista la mole dei pagamenti, la procura deve valutare anche l'accusa più grave di corruzione giudiziaria) spiccano le bellezze-fotocopia che vivevano a spese di Silvio «nel suo harem» in via Olgettina o in altre case-omaggio da 810 mila euro, viaggiavano su Mini o Smart donate in serie sempre dal premier, custodivano orologi e gioielli tutti identici.

E hanno intascato in massa uno strano "risarcimento morale" di 2.500 euro al mese perfino durante il processo: dalle gemelle De Vivo alla meteorina Miriam Loddo, da Raissa Skorkina alla romena Ioana Visan a tante altre, fino a Marysthell Polanco, l'ex ballerina di Colorado ricevuta dal prefetto nonostante il fidanzato in galera perché le aveva nascosto dodici chili di cocaina nel garage (pagato da Silvio).

Tutte concordi nel giurare che ad Arcore non c'era nessun «sistema prostitutivo»: solo «cene eleganti». Proprio la versione della difesa, smentita però da loro stesse, nelle intercettazioni boccaccesche e perfino in qualche foto ricordo.

Ad altre testimoni ora accusate di falso lo stipendio continuano a pagarlo tutti i contribuenti italiani. Maria Rosaria Rossi è deputata dal 2008 e ora senatrice del Pdl (c'è anche il viceministro agli Esteri, Bruno Archi). In aula ha giurato di non aver mai visto nulla di osceno ad Arcore, ma al telefono rideva con Emilio Fede che portava due «ragazze nuove»: «Bunga bunga anche stasera?». È addirittura europarlamentare Licia Ronzulli, già intercettata nel 2009 mentre smistava giovani in cerca di fortuna a Villa Certosa.

E un ricco stipendio politico se l'è meritato soprattutto Nicole Minetti, che ora rischia sette anni per favoreggiamento della prostituzione, nel processo parallelo con Fede e Lele Mora: fino alle ultime regionali intascava 12 mila euro al mese. E ora è indagata pure per i rimborsi-truffa da oltre 27 mila euro, pagati sempre dai cittadini lombardi: si è fatta spesare, tra l'altro, alberghi da 800 euro e svariate cene in ristoranti alla moda o "da Giannino", la base di partenza di tante notti di Arcore.

Proprio Fede e la Minetti, quando non sapevano di essere intercettati, hanno svelato molti segreti che ora contraddicono le testimoni di Papi. Emilio: «Ora lui invita gente allucinante: quelle da Napoli facevano la fame, pompini per 300 euro, anche meno...». Risposta di Nicole: «Esatto!». Al «blocco» delle deposizioni «menzognere e prezzolate», la procura e ora il tribunale oppongono le uniche otto testimonianze «vere e riscontrate»: ragazze che hanno ammesso di aver assistito a «spogliarelli, orge e soldi consegnati da Silvio».

Su tutte spicca Melania Tumini, una splendida bocconiana con due lauree, compagna di liceo della Minetti, che ha fatto l'errore di invitarla al bunga-bunga del 19 settembre 2010. Quella sera, nonostante le profferte di Berlusconi che le regala duemila euro, lei se ne va «schifata» dopo avergli giocato la carta che il signor tv non si aspetta: un sonoro due di picche. Otto testimoni sincere contro 32 presunte falsarie può sembrare una pessima media: ma questa non è l'Italia, è il sultanato di Arcore.

 

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