MACALUSO AMARCORD - “NAPOLITANO LASCERÀ FRA SEI MESI, DOPO LA RIFORMA ELETTORALE” – ‘’IL GOVERNO CRAXI È STATO TRA I MIGLIORI DELLA STORIA REPUBBLICANA” - ‘’BERLINGUER DIVENNE SEGRETARIO PERCHÉ ERA IL PIÙ TOGLIATTIANO DI TUTTI”

Aldo Cazzullo per il "Corriere della Sera"

Emanuele Macaluso - capo della Cgil siciliana con Di Vittorio, nel comitato centrale del Pci con Togliatti, capo dell'organizzazione con Longo, direttore dell'Unità con Berlinguer, amico di una vita di Napolitano - venerdì prossimo compie 90 anni.

Qual è il suo primo ricordo?
«Matteotti. Fu ucciso che avevo un anno, ma mio padre me ne parlava sempre».

Suo padre era antifascista?
«Fu costretto a prendere la tessera del fascio per riavere il posto in ferrovia: era stato licenziato per aver preso parte agli scioperi del '22. Per tutto il ventennio fu inchiodato alla qualifica di manovale, anche se faceva il fuochista. Mangiava mezzo chilo di pasta e beveva un litro di vino nero di Vittoria, ma era magro come un chiodo: impalava tonnellate di carbone al giorno. Aveva fatto la Grande Guerra e iniziato a lavorare come muratore a otto anni. Sempre meglio che scendere in miniera, però».

Cosa ricorda delle zolfare?
«Entrambi i miei nonni erano minatori. Rivedo la corsa delle donne scarmigliate, dopo che si era saputo dell'esplosione di grisù, per vedere se tra i morti c'era il marito o un figlio. Io stesso sono perito industriale minerario. I figli degli operai non potevano fare il liceo».

Come divenne comunista?
«Una notte cominciai a vomitare sangue. Mi portarono in sanatorio. Tubercolosi. Mi facevano dolorose punture di aria per immobilizzare i polmoni, nella speranza che la ferita guarisse. Quasi tutti i ragazzi che erano con me morirono. Io sognavo di arrivare a trent'anni. Il sanatorio era in fondo al paese, da lontano si vedevano i passanti con il fazzoletto premuto sulla bocca. L'unico amico che mi veniva a trovare, Gino Giandone, era comunista».

Lei prese la tessera del Pci clandestino nel '41.
«Fu un gesto di ribellione contro un mondo di una miseria e di un'ingiustizia medievali. Un giorno in miniera morirono quattro "carusi". Nella cattedrale di Caltanissetta c'erano tre bare. La quarta rimase sul sagrato. Era morto "in peccato" perché non era sposato in chiesa. Lo rifiutarono anche cadavere!». (Macaluso picchia il pugno sul tavolo della trattoria del Testaccio, il quartiere romano dove vive. Sul tavolo fave, pecorino, sarde, e un solo bicchiere, per il vino. «Non bevo mai acqua, rovina i sapori» ).

Il primo maggio '47 era a Portella della Ginestra?
«No, parlai per commemorare la strage, un anno dopo. Ma ero a Villalba quando Calogero Vizzini, il capo della mafia, fece sparare sul nostro comizio. Io mi gettai a terra. Girolamo Li Causi rimase in piedi e fu ferito a una gamba. Zoppicò per tutta la vita. Un personaggio leggendario. Per i suoi comizi in siciliano arrivavano da tutta l'isola. L'ho amato molto. Come Di Vittorio, un uomo dolcissimo, e Pompeo Colajanni, "Barbato", il comandante partigiano che liberò Torino. Lina, la mia donna, era incinta. Lui previde che avrebbe avuto due gemelli. Li ho chiamati Antonio, come mio padre, e Pompeo, come lui».

Lei e Lina foste arrestati per adulterio.
«A vent'anni Lina aveva già due figli, da un marito anziano. Andammo a vivere insieme. Ci portarono in carcere e ci diedero sei mesi, in parte condonati. Ma nel Pci non tutti furono dalla mia parte. Per un anno Paolo Robotti visse in Sicilia. Portava un busto di ferro, a Mosca l'avevano torturato per indurlo ad accusare Togliatti, che era suo cognato, ma lui aveva taciuto. Diceva: "Se lo si vuole davvero, si resiste". Vero uomo sovietico. Robotti mangiava ogni giorno a casa nostra, e nei suoi rapporti, come lessi nel dossier Mitrokhin, mi descriveva come moralmente degenerato».

Negli Anni 60 lei ebbe un altro amore doloroso, vero?
«La relazione con Lina era esaurita. Mi legai a Erminia Peggio, sorella di un dirigente del partito, Eugenio. Ma io non ero pronto a troncare con la mia famiglia. Erminia soffrì molto. Dopo alcuni mesi si suicidò. Fu un dolore terribile».

Che ebbe conseguenze politiche.
«Giorgio Amendola chiese a Eugenio Peggio di formalizzare un'accusa di "scorrettezza morale" nei miei confronti».

Perché lo fece?
«Un po' perché Amendola era un puritano, legatissimo alla moglie, non a caso sono morti insieme. Un po' perché avevamo contrasti politici. Con Longo segretario, il partito era in mano a Berlinguer, capo della segreteria, a Natta e a me, capo dell'organizzazione. Ci chiamavano il "trio". Amendola voleva spedire Berlinguer in Lombardia e me in Veneto. Longo si oppose».

Che ricordo ha di lui?
«Un grande segretario. Il più aperto a laici e socialisti, mentre Berlinguer vedeva solo la Dc. Fu Longo a portare Parri in Parlamento come indipendente di sinistra».
Giuseppe Boffa lo definì per certi aspetti il miglior segretario che il Pci abbia mai avuto.
«Ora non esageriamo. Il miglior segretario è stato Palmiro Togliatti. Un intellettuale di statura europea, uno che teneva testa a Stalin...».

Non sempre gli tenne testa.
«All'hotel Lux viveva come un prigioniero. A chi gli chiedeva di intercedere presso Stalin contro le purghe, rispondeva: "Non posso. Ma quando saremo in Europa la nostra bussola sarà la democrazia". Nel '49 Stalin gli chiese di andare a dirigere il Cominform. Tutti i capi del Pci, tranne Terracini e Di Vittorio, erano d'accordo. Lui rifiutò, con una lettera durissima: "Il Cominform non serve a nulla". Sei mesi dopo Stalin lo sciolse».

Togliatti era antipatico?
«Niente affatto. Dopo l'esilio era affamato di Italia. Lo portai a Monreale e ne fu felice. Gli piacevano le trattorie romane, le passeggiate in Valle d'Aosta. Prima di partire per l'ultimo viaggio in Urss, mi chiamò da parte a Montecitorio e mi disse: "Se tardo, mandatemi un telegramma per richiamarmi con urgenza. Voglio andare a Cogne a respirare"».

Invece morì. E, dopo Longo, venne Berlinguer. Che viene considerato molto diverso da Togliatti. Non a caso ruppe con Mosca.
«Ma Berlinguer fu scelto proprio perché era il più togliattiano di tutti noi! Il suo prestigio veniva anche dal fatto che era stato Togliatti a indicarlo per il futuro del partito. Certo, non ne fu l'esecutore testamentario, seppe adattarsi alle circostanze. Ma la sua politica è tutta dentro il togliattismo: l'incontro con i cattolici, il compromesso storico, la solidarietà nazionale. Quando Veltroni disse che lui non era mai stato comunista, gli scrissi un biglietto: "Se sei andato a Palazzo Chigi con Prodi, lo devi a Palmiro Togliatti"».

D'Alema è meglio di Veltroni?
«D'Alema si è illuso di tenere tutto insieme, ma la sua politica e i suoi comportamenti hanno segnato una cesura. La loro generazione si è comportata male nei confronti di Natta, e non solo. Chi non era d'accordo era fuori. Con Berlinguer eravamo in dissenso sul rapporto con i socialisti, ma lui mantenne Napolitano capogruppo alla Camera, Chiaromonte al Senato e fece me direttore dell'Unità . Tre suoi critici».

Napolitano è stato eletto al Quirinale.
«Ma mica grazie a loro! Il candidato di Fassino era D'Alema. Diede anche un'intervista al Foglio per indicarne il programma...».

Su Craxi non aveva ragione Berlinguer?
«Craxi commise un errore capitale dopo l'89: anziché allearsi con noi, fece il Caf con Andreotti e Forlani. Ma il suo governo è stato tra i migliori della storia repubblicana. All'Unità gli sparavo contro tutti i giorni; ma aveva Visentini alle Finanze, Spadolini alla Difesa, Martinazzoli alla Giustizia, Andreotti agli Esteri. E Scalfaro, che è stato un coraggioso ministro dell'Interno».

Lei sparava anche contro Repubblica .
«Per forza. Secondo Scalfari tutto si giocava tra Craxi e De Mita. E fu proprio De Mita, dopo il crollo della Dc nell'83, a fare il nome di Craxi per Palazzo Chigi. Ricordo che Berlinguer si infuriò. Non l'avevo mai visto così arrabbiato».

Quando vide per la prima volta Napolitano?
«Nel 1950, in Sicilia. Faceva il militare. Aveva ancora i capelli. Non moltissimi però».

Quanto durerà il suo secondo settennato?
«Non ci sarà un secondo settennato. Lui stesso si è dato un tempo di 18 mesi. Ne restano poco più di sei. Credo proprio che, quando il Senato avrà approvato la riforma elettorale, si dimetterà. Non voleva assolutamente accettare la rielezione. Gli chiesero di sacrificarsi perché non c'era via d'uscita. Ora se ne sono già dimenticati».

Perché è così scettico su Renzi?
«Renzi è figlio di un'epoca che non capisco. La cultura politica non è più nulla. Tutto è comunicazione».

Chi andrà al Quirinale dopo Napolitano?
«Si aprirà un problema enorme, che tutti sottovalutano. Draghi sta bene dove sta. Monti ha fatto la sciocchezza di farsi un partitino...».

Chi resta?
«In Italia abbiamo solo due uomini in grado di rappresentarci nel mondo: Romano Prodi e Giuliano Amato. Ma Prodi non lo vuole la destra. E Amato ha nel Pd resistenze che lei non può neanche immaginare».

 

 

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