SVEND-ITALIA - PRIVATIZZAZIONI À-LA-SACCOMANNI: INCASSI DA FAME, TEMPI INCERTI E DEBITO PUBBLICO PRATICAMENTE INVARIATO. CHI GODE? LE SOLITE BANCHE

Federico Fubini per "la Repubblica"

Non è un annuncio improvvisato, quello che il governo ha fatto cinque giorni fa sulle privatizzazioni. È da quando è diventato ministro dell'Economia che Fabrizio Saccomanni pensava a un piano di cessione di beni pubblici (o semi- pubblici) per contenere il debito dal 2014. Il programma presentato dall'Italia venerdì a Bruxelles non nasce dunque solo dall'urgenza di convincere i ministri finanziari dell'area euro sull'efficacia della Legge di stabilità.

La risposta di Olli Rehn, commissario Ue agli Affari monetari, è stata pragmatica: terrà conto delle privatizzazioni quando ne vedrà i dettagli. E non sarà un passaggio da poco, perché l'intera operazione potrà ridurre il debito solo in misura molto minore ai 10-12 miliardi che si propone di mobilitare. Probabilmente non più di quattro o cinque miliardi, al più una riduzione di debito di un terzo di punto percentuale. In questo caso, si confermerebbe la stima di Bruxelles secondo cui il debito continuerà a crescere anche nel 2014.

Non è colpa di Saccomanni se il portafoglio di beni vendibili in tempi brevi ormai è ristretto. Ma dalla dismissione di una quota dell'Eni, alla cessione del 60% di Sace da parte di Cdp, a quella del 50% di Cdp reti, sul pacchetto restano incognite e punti interrogativi. Il più evidente riguarda proprio il gruppo petrolifero, perché l'operazione prospettata dal Tesoro sembra difficile da eseguire entro il 2014.

In base al piano l'azienda ritirerebbe dal mercato il 10% del proprio capitale, riacquistandolo e permettendo così al Tesoro di veder salire la propria quota che oggi è al 4,3%. Poiché Cassa depositi e prestiti (Cdp) ha un ulteriore 26,7% - e il Tesoro ha l'80% di Cdp - la partecipazione dello Stato salirebbe in tutto al 33%.

Ciò permetterebbe a Saccomanni di dismettere un 3%, incassando due miliardi, senza scendere sotto la soglia del 30% che garantisce il controllo della società. Il punto è capire se sarà fattibile. Eni aveva già messo in cantiere un riacquisto di azioni proprie possibilmente fino al 10% del capitale, che agli attuali valori di Borsa costa 6,5 miliardi. Ma un'operazione su così vasta scala è concepibile solo su molti anni, nei grandi gruppi quotati dell'Occidente.

Sul 2014 il consiglio dell'Eni prevedeva un riacquisto di titoli per 530 milioni e non ha certo la liquidità per salire a 6,5 miliardi. Per riuscirci, dovrebbe rinunciare a importanti investimenti e indebitarsi per tre miliardi: più di quanto, alla fine, il Tesoro otterrebbe in riduzione del proprio debito. Inoltre, una manovra così squilibrata darebbe agli investitori il segnale che il Tesoro non controlla Eni nel migliore interesse della società, ma solo ai propri fini. I soci privati sarebbero disincentivati a restare.

Più chiare invece le grandi linee dell'operazione su Sace. La società di assicurazione all'export è ben gestita, ha sempre chiuso in utile e ora si pensa di metterne sul mercato una quota del 60%. I compratori sarebbero Generali o altri investitori istituzionali, un'ipotesi che permetterebbe a Sace di crescere ancora.

A vendere sarebbe Cdp, a cui il Tesoro aveva ceduto Sace solo un anno fa incassando 6,2 miliardi, all'epoca andati a riduzione del debito. Ora Cdp potrebbe incassare circa 4 miliardi dalla vendita del 60% di Sace, ma il grosso di questa somma non può essere retrocesso al Tesoro come dividendo a ulteriore riduzione del debito.

Il motivo è chiaro: se così fosse, il Tesoro incasserebbe due volte dalla vendite dello stesso bene e questa sarebbe una pratica contabile (quantomeno) "creativa". Cassa depositi può trasferire al governo solo un'eventuale plusvalenza rispetto al prezzo pagato un anno fa. In sostanza, una pur ottima operazione che mobilita 4 miliardi può ridurre il debito al massimo di poche centinaia di milioni, cioè di minime frazioni di punti percentuali.

Un tema simile si pone poi nella vendita del 50% di Cdp reti, dentro cui confluirebbero Snam e Terna. Queste ultime due, reti del gas e dell'elettricità, sono nella stessa situazione giuridica di Sace: già "privatizzate" con il passaggio dal Tesoro a Cdp in precendenza. Il fatto che entrino nella holding Cdp Reti, una scatola cinese, permetterà però a Cdp di dare un extra dividendo al Tesoro come se avesse venduto una società davvero nuova. Di fatto il governo così incasserà due volte, circa 2,8 miliardi, dalla vendita di Snam e Terna.

Questi sono i limiti di un portafoglio ormai limitato di partecipazioni pubbliche. Eppure ce ne sono alcune che varrebbero ancora molto: Poste Vita, BancoPosta (però senza avventura in Alitalia) o un FrecciaRossa (vale a dire solo il business dell'alta velocità) enucleata da Ferrovie. Ma queste non sono entrate nel piano privatizzazioni presentato a Bruxelles.

 

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