QUANDO IL CINEMA SCOPRÌ CHE GRILLO ERA UN PESSIMO ATTORE - TRE FILM, POI SOLO MONOLOGHI

Da "Il Foglio" - Gianni Canova per Bianco e Nero


Lui parla da solo. Non è il solo che lo fa. Nella tradizione comica italiana l'hanno fatto in tanti, prima di lui, da Dario Fo a Paolo Rossi, da Adriano Celentano a Roberto Benigni. Eppure, in nessun altro comico il monologo è assurto a forma di spettacolo assoluta, totalizzante ed esaustiva come in Beppe Grillo. L'hanno definito di volta in volta tribuno, comiziante, predicatore. In realtà Grillo è prima di tutto (e fino in fondo) un monologhista.

Uno che gestisce il flusso della comunicazione in modo verticale, diffondendo il Verbo dall'alto del suo assolutismo enunciativo. Nelle culture dialogiche, le idee passano al vaglio del punto di vista opposto, si confrontano con il dissenso, si misurano con il contrario e con il diverso. Nelle culture monologiche, invece, le idee vengono urlate in un delirio di solipsismo, e innescano adesioni fideistiche (da tifo calcistico...) in cui la razionalità viene totalmente subissata dalla emozionalità.

Beppe Grillo incarna l'espressione più matura ed estrema dell'egemonia del monologo nella tradizione culturale e comunicativa italiana. Il monologhista non ammette né confronti né obiezioni: costruisce un Nemico Assoluto (di volta in volta: il comunismo, il berlusconismo, il clandestino, il migrante, il politico ladro e corrotto) e lo offre come capro espiatorio a un corpo sociale che proprio nell'odio per il Nemico costruisce la propria identità (e scarica la propria insoddisfazione). [...]

La cosa singolare è che Beppe Grillo arriva ad essere l'indiscusso campione contemporaneo della forma monologica dopo aver sperimentato (e scartato...) a inizio carriera una forma di spettacolo (e di comunicazione) squisitamente dialogica come il cinema. (...) Il cinema, per sua natura, non ammette il solipsismo.

Educa alla coralità, alla pluralità. È una delle (poche?) forme di comunicazione che contrappongono al primitivismo autoritario e autocratico del monologo la polifonia democratica della creazione collettiva e del piacere condiviso. Nei confronti del cinema, dopo una fase confusa di indistinta e oscura attrazione, Grillo matura prima un rapporto di diffidenza e di disagio, poi prende atto di una congenita incompatibilità. Negli unici tre film a cui prende parte, in pieni anni Ottanta, Grillo tocca con mano che il cinema non è fatto per lui (o che lui non è fatto per il cinema...) e in sostanza lo ripudia. Ma paradossalmente proprio nei tre film che lo vedono protagonista è possibile rinvenire - per certi versi - la profetica epifania della sua carriera successiva.

Come se il monologhista nascesse dalla presa d'atto - al contempo malinconica e stizzita - dell'impossibilità di essere attore. Il rapporto di Grillo con il cinema si concentra e si esaurisce nell'arco di pochi anni. Tre i film di cui è protagonista: Cercasi Gesù (1982) di Luigi Comencini, Scemo di guerra (1985) di Dino Risi e infine Topo Galileo (1987) di Francesco Laudadio. [...] Il primo «vaffa!» della sua carriera pubblica Grillo lo pronuncia nel suo secondo film, Scemo di guerra, diretto da Dino Risi e liberamente tratto dal romanzo di Mario Tobino Il deserto della Libia.

L'insulto è indirizzato a una mosca ronzante e fastidiosa, che si posa sulla mano del personaggio interpretato da Grillo nell'afosa oasi di Sorman, tra la sabbia e le dune del deserto libico. Nella finzione filmica siamo nel 1941: ma dal momento che l'epiteto volgare in questione - come afferma il Grande Dizionario della lingua italiana Battaglia - è attestato nella lingua italiana scritta solo a partire dal 1953, se ne deduce che l'uso tendenzialmente anacronistico di tale espressione volgare potrebbe valere come ulteriore sintomo di un bisogno ininterrotto di prevaricazione dell'attore sul personaggio. Grillo, insomma, non riesce a smettere di essere Grillo. Per quanto si sforzi, non riesce a «calarsi» nella parte, e a cancellare nel ruolo la sua identità prefilmica. [...]

Un pessimo attore, come lo stesso Risi ebbe a riconoscere in modo esplicito: «Ai tempi era la giovane promessa dello spettacolo italiano. Lo ammiravo per le cose che faceva in tv, e per questo lo scelsi. Però mai avrei immaginato che fosse così negato a recitare. Anche Beppe comprese presto che il cinema non era per lui. In compenso si capì subito che ambiva a diventare personaggio, che aveva altre ambizioni». [...] Il rifiuto del cinema da parte di Beppe Grillo è quasi un'abiura. E ha un valore emblematico per la storia non solo dello spettacolo ma - visti gli sviluppi successivi - anche della società e della cultura italiana contemporanea.

È un sintomo rivelatore di come la nostra tradizione culturale sia insofferente di ogni regola e di ogni disciplina: Grillo che non riesce ad essere attore incarna ed esprime l'insofferenza anarcoide dell'italiano nel dover essere cittadino, nel sottostare a regole, nell'accettare un ruolo. Il suo essere furente e furioso, la sua predilezione per l'insulto e l'invettiva, il suo ripudio urlato del mondo («mi fa schifo!») esprimono meglio di tante altre analisi il carattere degli italiani, che in lui si riflettono e si riconoscono.

Non solo: in lui vedono il predicatore che li fa ridere. Quello che castigat ridendo mores. Quello che li assolve dal fantasma della mediocrità offrendo loro - di volta in volta - un nemico da odiare e su cui scaricare ogni colpa. Come Dario Fo e Adriano Celentano, Grillo vuol parlare una sola lingua, la sua. Non si accontenta di essere il comico tribuno. Ambisce a essere il salvatore del mondo. Il fustigatore dei malvagi. Il superuomo di massa che denuncia, conforta, vendica e punisce. In lui, nella sua veemenza e nella sua furia, nella sua capacità di aizzare e poi sdrammatizzare, si trovano tracce di una tecnica comunicativa a cui il pubblico italiano è ben assuefatto e che viene da lontano, forse addirittura da un mix fra la retorica di un Savonarola e la tecnica barocca della predicazione controriformista.

Tornano alla mente - osservando le sue «predicazioni » - alcune celebri pagine manzoniane, a cominciare dall'incontro fra Don Rodrigo e Fra Cristoforo, quando il dialogo tortuoso e difficile viene interrotto improvvisamente dall'invettiva minacciosa («Verrà un giorno...! »), esaltata da un gestualità («alzando la sinistra con l'indice teso») che evoca la veemenza del pulpito, quello stesso dall'alto del quale il medesimo Fra Cristoforo immagina di rivedere Don Rodrigo nell'incubo finale, «fulminando lo sguardo in giro su tutto l'uditorio».

Grillo viene da questa tradizione, minaccia, alza il dito e fulmina con lo sguardo, urla e profetizza, riallacciandosi a un'oratoria e a una prossemica ben radicate nella memoria collettiva degli italiani: con l'istinto antropologico del tribuno di rango, non solo riprende tecniche, stili e figure di una tradizione plurisecolare, ma - senza saperlo - plasma il suo stile predicatorio sui due simboli zoomorfi («il vanitoso e frivolo pavone» e «l'irsuta e repellente istrice») che secondo il cardinal Sforza Pallavicino dovevano ispirare l'arte della predicazione e fondersi nella figura del predicatore efficace. Un po' pavone, un po' istrice, Grillo fugge dal cinema per costruire forme di comicità di volta in volta plebiscitaria, diffamatoria o ingiuriosa che trovano nell'apparente rifiuto della finzione e nella retorica della trasparenza e della verità il loro collante indissolubile.

Quando nel 1989, dal palco di Sanremo, Grillo urla - in televisione - che «dove c'è la televisione non esiste la verità!», nega la verità di quel che dice proprio dicendolo in televisione (cioè in quello che secondo lui è il luogo della menzogna assoluta), ma così facendo riesce nel miracolo mediatico di fondare sulla menzogna dichiarata il culto plebiscitario della sua verità.

Così, sul finire degli anni Ottanta, il suo passaggio dal tessuto polifonico della commedia all'eloquio solipsistico del comicotribuno indica di fatto una caduta di socialità, un oscuramento del senso di collettività, che va ben oltre la persona di Grillo. Anche se in lui e nella sua storia risulta evidente quel modo di interpretare la satira che non verrà meno neanche con il passaggio dalla tv al web, e che giustamente Italo Calvino stigmatizzava già alla fine degli anni Settanta in uno scritto poi raccolto in Una pietra sopra: l'atteggiamento di chi non coinvolge nella propria feroce ironia anche se stesso, e che anzi, nell'atto di spargere veleno sul mondo, è ben attento a chiamarsene fuori.

 

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