jeb bush

HILLARY, JEB BUSH E LA MALEDIZIONE DEI SUPERFAVORITI - DA REAGAN AD AL GORE: NELLA CORSA ALLA CASA BIANCA IL CAVALLO DATO PER VINCENTE E’ QUELLO CHE SI VA A SCHIANTARE - TROPPA SICUREZZA PUO' ESSERE FATALE ALLA CLINTON, BUSH LASCIA CHE TRUMP SI BRUCI...

jeb bush hillary clintonjeb bush hillary clinton

Vittorio Zucconi per "la Repubblica"

 

In bilico sul trono dei pronostici, con la pesante corona del “favorito” in testa, il candidato che crede di avere vinto le elezioni in anticipo è, in tutte le corse, semplicemente colui o colei che, avendo già vinto, può soltanto perdere. E spesso perde, abbattuto dalla maledizione del superfavorito.

 

Dai titoloni dei giornali che nel 1948 annunciarono la vittoria di Thomas Dewey con Harry Truman soltanto per scoprire qualche ora dopo che era vero il contrario, alla disfatta di Ted Kennedy, figliol prodigo e prediletto delle nostalgie democratiche che neppure riuscì a qualificarsi per la finale del 1976, i gran premi della democrazia americana, e non solo, sono cosparsi dalle carcasse di chi si credeva imbattibile.

JEB BUSH E HILLARY CLINTONJEB BUSH E HILLARY CLINTON

 

Anche decenni prima che radio, televisioni, media elettronici e giornali intervenissero a cambiare il vento effimero dei pronostici con i loro effetti sull’opinione pubblica, essere il “cavallo bianco” predestinato a vincere non ha mai del tutto protetto dalla cavalcata del “dark horse”, del cavallo scuro che nell’ombra avanza. Il più venerato dei presidenti americani, Abraham Lincoln, che a distanza di 150 anni sembra l’uomo scelto dalla Provvidenza per guidare la nazione, risultò distante secondo alla prima votazione nel congresso repubblicano, dietro al favoritissimo, e ormai dimenticato, William Seward, prima della faticosa rimonta.

ronald e nancy reaganronald e nancy reagan

 

Troppo lunga e accidentata è divenuta la corsa al traguardo più ambito del potere, la Casa Bianca, perché i pronostici scritti due anni prima della gara possano essere scolpiti nella certezza.

 

E proprio le pubbliche lacrime di Hillary Rodham Clinton nel febbraio del 2008, quando la signora, sicura della vittoria fra i suoi Democratici, scoprì di essere stata sgambettata da tale Barack Obama al primo incontro nell’Iowa e capì di averlo sottovalutato, illustrarono la profondità della delusione che i vincitori designati dai bookmaker della politica provano, quando prendono troppo sul serio la loro stessa propaganda.

 

 

Al Gore Al Gore

Ora che la stessa signora sembra avere già vinto una corsa che non comincerà fino a gennaio tra i fienili e le porcilaie gelide dello Iowa, mentre nella trincea opposta un ennesimo Bush indossa i panni del predestinato, di nuovo “la maledizione del favorito” proietta la propria ombra sul tavolino delle predizioni.

 

 Al Gore  Al Gore

I repubblicani ricordano la atroce delusione dell’amatissimo Ronald Reagan, che nella campagna elettorale del 1976 travolse di entusiasmo e di passione l’elettorato soltanto per andare a schiantarsi contro Gerald Ford alla Convention di Kansas City per l’investitura. Avrebbe dovuto attendere quattro anni, fino al 1980, per la sua rivincita.

 

Nixon il detestabile, il crocefisso dai sondaggi e dagli opinionisti, l’uomo “sporco e baro” che era morto e risorto più volte di un Lazzaro della politica, sconfisse facilmente, e per due volte, avversari democratici che parevano sospinti dal vento della volontà popolare, Humphrey e poi Mc-Govern, grazie al voto di quella “maggioranza silenziosa” e conservatrici che tace nella piazze, mente nei sondaggi ma parla nelle urne.

 

richard nixon 1969:1973richard nixon 1969:1973

 

E indimendicabili rimangono i capitomboli di Gary Hart, favoritissimo senatore democratico, ruzzolato su una relazione segreta con una piacente signorina della Florida fotografata sulle sue ginocchia accoglienti mentre lui sembrava inarrestabile. E il collasso del populista Howard Dean, alfiere della vera sinistra pura e dura mobilitata contro l’establishment e stroncato subito al debutto nelle primarie, provò come i beniamini della minoranza rumorosa raramente sono gli eletti della maggioranza più riservata.

 

RICHARD NIXON
RICHARD NIXON

Non sono cerimonie di sapore vodoo, con bamboline trafitte da spilli malevoli, a fermare i presunti vincitori nelle corse politiche o di cavalli, nelle quali comunque, avvertono i bookmaker inglesi, il favorito vince in media una gara su tre, dunque ne perde due su tre.

 

Il diabolico meccanismo delle primarie, che produce esiti a sorpresa grazie al minuscolo numero di elettori, quasi mai superiore al 10 per cento degli iscritti, il logorìo di interminabili campagne elettorali che costringono il candidato a consumare la metà del proprio tempo a ramazzare finanziamenti elettorali, vedansi i due miliardi di dollari che saranno necessari a Hillary o al suo avversario, e la ostilità dei media che odiano la noia dei risultati scontati e pompano qualsiasi “cavallo nero”, qualsiasi outsider, per tenere vivo l’interesse dei consumatori, incrinano il piedistallo del favorito. Come sta avvenendo per la Clinton, storia vecchia, dunque poco appetita.

hillary clinton e bush hillary clinton e bush

 

La trappola di Hillary, troppo sicura oggi e dunque troppo vulnerabile anche di fronte ad avversari senza alcuna vera speranza come l’anziano senatore Bernie Sanders del Vermont o l’ex governatore del Maryland O’Malley, allievo dei dei gesuiti a Washinton, è proprio la sua sicurezza. Una trappola che il presunto avversario, Jeb Bush, sta evitando, permettendo che il grottesco e cotonatissimo miliardario Donald Trump si esponga, si crogioli, e quindi si bruci, nella luce delle sue sparate anti-latinos e anti-immigrazione.

 

Su di loro, e fuori da etichette di partito, incombe il ricordo inquietante della prosopopea e della arroganza di un certo Al Gore, il vice di Clinton, che nel 2000, troppo sicuro della vittoria, respinse sdegnato l’appoggio del popolarissimo Billy, sbuffò infastidito davanti ai balbettii del mediocre e impreparato Giorgino Bush nei dibattiti tv, si proclamò addirittura vincitore con una telefonata all’avversario. E alla fine scoprì di avere perso la Casa Bianca per 530 voti su 120 milioni. Perché la maledizione del favorito ha anche un proprio malvagio senso dell’umorismo.

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