INTERVISTA ALLA SHALABAYEVA: “I FUNZIONARI ITALIANI HANNO MANOMESSO IL MIO PASSAPORTO. QUANDO HO CHIESTO ASILO MI HANNO DETTO CHE L’ORDINE ERA STATO FIRMATO DA AUTORITÀ MOLTO IN ALTO”

Francesco Semprini per "la Stampa"

Mi dispiace, è troppo tardi. L'ordine è stato firmato da due autorità molto in alto, non si può fare nulla ormai». Queste parole, scandite come un verdetto senza possibilità di appello, sono l'ultimo ricordo dell'Italia per Alma Shalabayeva, prima del ritorno forzato in Kazakhstan. A pronunciarle è stato un uomo alto con i capelli bianchi, tutto vestito di jeans, al quale la donna si era appellata nell'ultimo disperato tentativo di ottenere asilo politico, in quanto moglie di Mukhtar Ablyazov, oppositore, dissidente e nemico giurato del presidente Nursultan Nazarbayev.

La sua testimonianza arriva a due mesi dalla «rendition» a Casal Palocco, e a pochissimi giorni dall'arresto del marito avvenuto in Francia, dove si era rifugiato dopo il rimpatrio forzato di moglie e figlia. La donna ci apre le porte della casa dei suoi genitori ad Almaty, dove è costretta in una sorta di ritiro coatto. È la prima volta che lo fa con un media, e la scelta di un italiano non appare casuale.

La discrezione è d'obbligo, ci vengono a prendere in auto alcuni parenti, con i quali attraversiamo buona parte della città prima di arrivare in una zona residenziale decentrata, dominata da una moschea dal minareto azzurro, come la bandiera del Kazakhstan. Alla fine di un labirinto di stradine polverose ad aprire il portone è un cugino che si affretta a richiudere con tanto di lucchetto.

Nel vialetto antistante la villa, la piccola Alua gioca col suo coniglietto, ci regala un sorriso e anche uno scatto. I fatti romani di fine maggio sembrano assai lontani per lei. Per Alma invece no, lo vediamo dalla mano tremolante mentre versa del succo di frutta, i segni di un incubo senza fine. E dalla voce, talvolta interrotta, che cadenza la lunga chiacchierata che ci regala nel suo salotto tra poltrone damascate e rifiniture in legno massello.

«Mi sento stanca, arrabbiata non dormo da due notti, piango molto. Quello che sta succedendo a mio marito è inaccettabile, assurdo, illegittimo, un comportamento criminale. E io mi sento come uno ostaggio e uno strumento di manipolazione per fare pressioni su di lui».

Signora, ha ancora sentito suo marito?
«Non lo sento da giorni, poi vorrei evitare di parlarne perché c'è il rischio che le parole siano usate contro di noi».

Le manca la vita di Casal Palocco?
«Avevamo scelto l'Italia perché la ritenevamo un modello di buona democrazia, in grado di proteggere i diritti non solo dei suoi cittadini ma anche di quelli di altri Paesi. Anche a mio marito piaceva molto, anche se c'è stato sempre per brevi periodi, andava e veniva senza dare preavvisi, dove smarcarsi dagli inseguitori, sin dai tempi di Londra».

La sua opinione è cambiata dopo quella notte ...
«È cambiata la mia vita e sono cambiata io. Ci sono cose che rimarranno incise nella mia mente per sempre. Le catenine al collo e gli orecchini d'oro indosso a quelle trenta persone che hanno fatto irruzione in casa mia, le barbe incolte, le creste in testa, sembrava una gang. E poi le pistole che bussavano ai vetri, la violenza su mio cognato Bolat, gli insulti e le minacce, il terrore di mia figlia e mia nipote. Ero paralizzata, non capivo se erano mafiosi travestiti da poliziotti o poliziotti dai modi mafiosi. A un certo punto si è palesato un uomo, forse il capo, aveva un tesserino sul petto, lì mi è stato tutto più chiaro, ci hanno chiesto i documenti, io ho detto che ero russa ma avevo passaporto centroafricano, non volevo dargli quello kazako su cui c'era mia figlia col cognome di Mukhtar».

Aveva capito che cercavano suo marito?
«A quel punto sì, e volevo evitare di dare conferme sul fatto che quella era anche casa sua, ma quando mia sorella gli ha fatto vedere il suo passaporto kazako e in camera hanno trovato una foto sua, è iniziato il finimondo».

... e anche la sua Odissea...
«Ricordo la corsa in auto verso il posto di polizia, cinque persone intorno a me mi hanno costretta a firmare un verbale, mio cognato Bolat, l'unico che avevano portato via assieme a me, ha scritto in russo "Non capisco nulla di quello che c'è scritto", ma la polizia, non capendo il cirillico, l'ha presa per un firma».

Il tutto senza un'accusa precisa, almeno sino a quel momento?
«Solo quando siamo arrivati ormai all'alba presso l'ufficio dell'immigrazione, mi hanno detto che il mio passaporto era falso, perché aveva due pagine 35 e 36, ovvero due doppioni».

Ed era così?
«Sì, ma le avevano messi loro. Sino a due ore prima c'era una sola pagina 35 e una sola 36, e per di più i doppioni erano entrambi bianchi, immacolati, appena sfornati direi. Lì ho capito che mi volevano incastrare e allora ho detto tutto, su di me, mio marito, le persecuzioni, l'asilo politico e la situazione in Kazakhstan. Pensavo che a quel punto, di fronte a una questione così seria, le cose sarebbero cambiate».

E invece?
«Mi cognato l'hanno rimandato a casa e io sono finita in una cella di Ponte Galeria, terrorizzata, in lacrime e con due coinquiline che però si sono dimostrate migliori di quanto temessi. Due notti, intervallate da una giornata intera nel tentativo di far capire chi ero veramente.

L'unico che aveva dei dubbi era il responsabile dell'ufficio immigrazione, ma sotto le pressioni degli altri poliziotti ha dovuto cedere. Una delle più dure era una certa Laura, una volta mi ha persino stracciato il biglietto col numero dell'avvocato. Poi c'era un altro personaggio assai strano, parlava benissimo russo, pensavo mi volesse aiutare e invece è stato lui a segnalarmi al consolato kazako, dando loro un assist perfetto»

Che cosa le hanno detto?
«Non ha diritto ad avere due passaporti, non possiamo far nulla per lei».

Poi però lei è comparsa davanti al giudice di pace.
«Il mio avvocato ha chiesto che fosse visionato il passaporto, visto che l'accusa verteva tutta su quel documento. Ma agli atti non c'era e la Corte, senza documento, non mi poteva lasciar andare. Era un complotto, inutile adire che l'ennesima richiesta di ottenere aiuto come moglie di un perseguitato è stata del tutto ignorata. Mi sono ritrovata il 31 maggio a Ciampino, lì ho rivisto mia figlia e mia sorella, quest'ultima per l'ultima volta, e l'ho stretta in un lungo abbraccio. Tra la decina di agenti di scorta sul pulmino dove sono stata accompagnata sino alla pista c'era Laura e il tipo che parlava russo, il quale mi ha intimato di non rivelare questa sua abilità linguistica ai funzionari dell'ambasciata kazaka che mi stavano aspettando. Sempre più strano».

Non c'è stato nulla da fare?
«Ad aspettarmi ai piedi della scaletta c'era un uomo alto con i capelli bianchi, tutto vestito di jeans, con una pila di carte in mano, un funzionario forse. A lui ho rivolto per l'ultima volta la richiesta di asilo politico».

Che cosa ha risposto?
«"Troppo tardi, questo ordine è stato firmato da autorità molto in alto". Ho preso Alua e sono entrata nel charter, un aereo kazako probabilmente, visto che a mia figlia hanno fatto vedere un cartone disponibile in due lingue, kazako e russo. C'erano un'assistente di bordo, i due piloti e i funzionari kazaki, uno dei quali è stato tutto il tempo nella cabina - ho saputo dopo - per evitare che si procedesse al "detour" chiesto in extremis dalle autorità austriache».

Quindi il ritorno ad Almaty?
«Con lo scalo ad Astana dove, puntuale, un congruo numero di persone si era radunato con l'intento di umiliarmi in pubblico additandomi come rinnegatrice della Patria».

E qui che vita fa?
«Non posso uscire dalla città, ma in realtà esco anche poco da casa, siamo sempre seguiti e anche dentro queste mura abbiamo occhi e orecchie dappertutto. L'altro giorno mi sono vista sulla tv di stato mentre pulivo il prato e mi prendevo cura di mio papà in giardino. Mio papà mi chiede che faccio qui, mi dice che dovrei essere in Europa, con la mia famiglia. Non è in gran forma, non realizza bene, e io non voglio dargli dispiaceri ulteriori. Limito anche le visite in casa, ma la scorsa settimana sono andata a trovare il console italiano con cui ho un buon rapporto».

Ce l'ha con l'Italia?
«Quelle persone hanno eseguito un ordine che veniva dal Kazakhstan. Certo, sono sicura che c'è un tramite, qualcuno che si sarà accertato che le disposizioni fossero eseguite con cura. So cosa mi sta chiedendo... ma non lo so chi è, e anche se lo sapessi o lo immaginassi....».

Però un messaggio a qualcuno lo vuole inviare, non è vero?
«Voglio ringraziare le autorità italiane per aver emesso l'ordine di cancellazione dell'espulsione e per il tentativo di aiutarmi. Ringrazio gli italiani per aver dimostrato di non essere indifferenti nei confronti miei e del dramma che stiamo vivendo. Alle autorità francesi rivolgo un auspicio, che mio marito non venga mandato da nessuna parte, perchè sia italiani che russi hanno ricevuto ordini dal Kazakhstan e questo è inaccettabile. Su Mokhtar dico solo una cosa: lui è stato, è e sarà sempre il leader dell'opposizione kazaka».

 

 

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