ASSALTO A CASAL PALOCCO: “SEMBRANO GANGSTER” - LA SORELLA DI ALMA RACCONTA IL BLITZ TRA BOTTE, SOPRUSI E MINACCE DI MORTE, SBIRRI VIOLENTI E SENZA PIETA'

Maurizio Molinari per "la Stampa"

Parlano per la prima volta i testimoni del blitz avvenuto dopo la mezzanotte del 29 maggio a Casal Palocco. Seduti attorno ad un tavolo in una palazzina in centro città ci sono Venera, sorella di Alma, la moglie dell'oppositore kazako Mukhtar Ablyazov, assieme al marito Bolat Seraliev e alla figlia Adiya di 9 anni.

Raccontano attimo per attimo cosa avvenne quella notte e nei due giorni successivi, fino all'espulsione di Alma e della figlia Alua verso il Kazakhstan. Seduta vicina a loro c'è Madina, la figlia di Ablyazov, che tradisce tensione per l'incerta sorte della madre e della sorellina entrambe ora ad Almaty. La decisione di raccontare a «La Stampa» i «tre giorni che hanno stravolto le nostre vite - esordisce Venera - è per far sapere cosa abbiamo passato ad una nazione che ci ha fatto sentire a casa ma dove all'improvviso siamo stati umiliati, maltrattati, offesi».

L'ARRIVO IN ITALIA
Avviene a settembre. «Vivevamo in Lettonia - racconta Madina Ablyazov - ma abbiamo scoperto di essere spiati, braccati e la decisione è stata di andare via». La residenza in Lettonia spiega i permessi di soggiorno di Alma, Venera e Bolat. «Quando si trattò di decidere dove trasferirci avevamo come possibilità la Francia e l'Italia - continua Madina - ma fu mia madre Alma a optare per Roma, diceva che ci saremmo trovati meglio perché il clima era mite, la gente più accogliente e la scuola per Alua migliore».

Si tratta della Southlands English School, dove Alua inizia l'anno scolastico, assieme alla cugina Adiya. Quando gli Ablyazov si spostano infatti, i Seraliev li seguono nella casa affittata a Casal Palocco, con una dependance nella quale risiede una coppia di domestici ucraini, Tatiana e Vladimir. «Da settembre fino alla notte del 29 maggio abbiamo vissuto bene» dice Venera anche se, aggiunge Madina, «non dicevamo ai quattro venti chi eravamo, nel timore di essere raggiunti dalle spie, come in Lettonia».

LE GRIDA NELLA NOTTE
Cinque minuti dopo la mezzanotte del 29 maggio «ci stavamo addormentando - racconta Bolat - quando improvvisamente abbiamo sentito un gran frastuono, la casa su un solo piano era circondata da vetri e ovunque c'erano uomini che battevano violentemente, tentavano di romperli, urlavano». Venera e Bolat non comprendono l'italiano né hanno idea di cosa succede, Alma parla un po' di inglese. Il rumore diventa assordante.

È Alma che apre la porta di casa. «In un attimo una ventina di persone vestite in abiti civili si riversano nel salotto, tutti uomini e una donna, strillano in continuazione, sembrano gangster, non capiamo nulla - dice Venera -, l'unica cosa comprensibile è che un uomo mostra in maniera aggressiva la foto di un personaggio maschile ad Alma, chiedendole se lo conosce».

È un'immagine stampata al computer. Alma, Venera e Bolat la guardano, non capiscono chi sia ma «i gangster frugano ovunque ripetendo "Mukhtar, Mukhtar"» lasciando intendere che cercano Ablyazov. «Sono quasi tutti giovani, corpulenti e hanno un superiore, è l'unico che ha la giacca, con un distintivo piccolo che luccica sul colletto» ricorda Bolat. Cercano Ablyazov perché fino a tre giorni prima era lì, lo sanno dall'ambasciata kazaka e dall'agenzia investigativa privata che seguiva le tracce di Ablyazov e l'aveva ormai individuato. La donna però preferisce non «confermare né smentire» sulla presenza del marito.

SOTTO IL LETTO DELLE BAMBINE
Alua e Adiya hanno il sonno pesante, sono reduci da una giornata di ginnastica e il frastuono non le sveglia «ma gli uomini entrano nelle loro stanze» racconta Venera, che assieme ad Alma è obbligata a sollevare di peso le bambine «mentre questi forsennati controllano i materassi, voglio guardare sotto i letti, ovunque».

L'AGGRESSIONE A BOLAT
Viene chiesto a Bolat di mostrare il suo computer. «Mi chiedono di mettere la password, vogliono che lo accenda ma serve qualche minuto e non hanno la pazienza di aspettare - racconta - vedono che sopra il laptop c'è una webcam e vogliono sapere se nella casa c'è un sistema di sorveglianza interno». Sono cose che Bolat intuisce «dai gesti dei gangster» perché non parla italiano né inglese e poiché chiede tempo, per via del computer che tarda, uno degli uomini armati inizia a colpirlo.

«Prima alla testa, poi dietro la schiena, sono colpi forti, inizio a sanguinare dalla bocca e mi portano al bagno, spingendomi a lavarmi in fretta la faccia, il sangue scorreva senza fermarsi e lo inghiottivo. Dopo che mi hanno picchiato in camera sono stato condotto nella sala, dove uno dei poliziotti ha detto, anzi, l'ha fatto capire con gesti, che dopo avermi spaccato un occhio mi avrebbe spaccato anche l'altro, poi mi avrebbero rotto i denti e infine ha fatto un gesto per dire che mi avrebbe tagliato la gola».

È lo stesso uomo che grida più volte a Bolat «Mafia! Mafia!». Venera intanto è nel salone, seduta con Alma, circondata da altri armati, tutti uomini «perché l'unica donna che era fra loro non si è fatta vedere, faceva solo le perquisizioni nelle stanze».

Umiliato in bagno
Bolat chiede di andare al bagno. Gli agenti glielo concedono ma lo obbligano a tenere entrambe le porte aperte. «Dovevo stare seduto sul wc e mi vedevano tutti, è stato umiliante - ricorda Bolat - loro ridevano di me, mi indicavano». Ma l'umiliazione in quel momento passa in secondo piano perché, dice Venera, «temiamo per la nostra vita perché abbiamo la casa invasa da uomini armati, non sappiamo chi sono e quando Alma in inglese gli chiede se hanno un mandato, un ordine del giudice o qualsiasi altro documento sembrano imbestialiti. Minacciano di colpirla».

L'agente con i capelli da indiana
Alle 4 del mattino, il blitz è concluso, è evidente che Mukhtar Ablyazov nella casa non c'è e «gli uomini armati parlano in continuazione al telefono» prima della decisione di ritirarsi portando con loro Alma e Bolat mentre Venera resta in casa con le bambini.

«Abbiamo fatto molta strada - ricorda Bolat - fino ad arrivare in un palazzo alla cui entrata c'è un grande arco, è stata la prima volta che ho visto un'auto con l'insegna della polizia, siamo saliti al quarto piano e ci hanno chiesto di firmare una dichiarazione sulla perquisizione avvenuta. Abbiamo accettato sotto minaccia».

Fuori della stanza Bolat riconosce l'uomo che lo ha picchiato e lo indica ad uno dei funzionari. «La conseguenza è che mi si avvicina un agente in abiti civili e i capelli da irochese, da dietro quasi mi soffia sul collo e ripete minacciosamente "russo", "russo", "russo"». Dopo la firma Bolat e Alma vengono fatti uscire e salire in auto.

La paura, «ora ci uccidono»
La vettura esce «dall'edificio con il grande arco all'entrata» e «va fuori città» facendo un «percorso molto lungo» fino ad arrivare «ad un edificio giallastro». Il luogo a Bolat sembra sperduto e, seduto sul sedile posteriore dell'auto si rivolge ad Alma confessandole: «Temo ci uccideranno».

CARABINIERI ASSOPITI
Bolat e Alma vengono riportati in città «in una specie di caserma dove all'entrata ci sono due carabinieri ancora addormentati», visto che è ancora primo mattino, «dobbiamo fare qualche giro in auto prima di poter entrare». Bolat e Alma si trovano «in un edificio che sembra aver a che fare con l'immigrazione».

«Il documento è falso»
È qui che Alma e Bolat vengono separati. Una funzionaria che dice di chiamarsi Laura spiega ad Alma che «il suo passaporto centrafricano è falso» mentre Bolat ne ha uno valido del Kazakhstan. Fino al primo pomeriggio i due restano «alle prese con l'immigrazione» e a nulla valgono le proteste di Alma che attesta la validità del passaporto come anche di avere un permesso di soggiorno lettone, che però ha lasciato a casa «pensando che il passaporto era più importante». Quella sera Alma dorme «negli uffici dell'immigrazione» e Bolat torna a casa.

Il secondo blitz Alle 6,30 del mattino del 31 maggio circa 15 uomini armati tornano a battere alle porte finestra della casa degli Ablyazov e Seraliev. Cercano Bolat e lo portano a Roma «per ulteriori accertamenti». Ma prima di andare via, dice Venera, «prendono tutti i nostri averi, soldi, gioielli, telefoni, macchine fotografiche, tutto».

Venera resta a casa con Alua e Adiya, che aveva scelto di non mandare a scuola. È a lei che «cinque uomini armati chiedono di prendere Alua». Venera resiste, non vuole lasciare la bambina e ricorda quegli attimi con le lacrime agli occhi: «Quando sono venuti a prendere Alua mi sono spaventata tantissimo. Le ho detto: "Non ve la consegno, non posso darvela, non potete portarvela via!".

Sono diventata molto nervosa, non sapevo cosa fare, chi chiamare, chi contattare, cosa dovevo fare. Hanno cominciato a farmi grandi pressioni, a urlare, "look me", "listen me", (guardami, ascoltami, ndr) hanno minacciato, mi hanno detto che avrebbero buttato il mio telefono nella piscina e che non dovevo chiamare nessuno, che si sarebbero portati via Alua. Ho cominciato a supplicarli, a chiedere, mi sono messa in ginocchio pregando "Please, no Alua, no Alua". Ma loro insistevano che avrebbero portato via la bambina comunque. Alma non c'era, ero io la responsabile».

Il diverbio si prolunga e nel tentativo di convincerla gli agenti la fanno parlare al telefono con un donna che, in russo, le dice: «Sono il tuo avvocato, non ti preoccupare, vogliono solo portare Alua dalla madre in via Nazionale». Venera si rassicura ma chiede di accompagnare Alua a via Nazionale. Salgono in macchina e quando arrivano davanti a un aeroporto Venera chiede ad un agente: «Ma questo è un aeroporto, perché siamo qui?».

La risposta le è rimasta impressa: «Appunto, questo aeroporto è via Nazionale». A Ciampino Alua vede la madre e le corre incontro. È l'ultimo momento in cui Venera le vede perché sono circa le 15 del 31 maggio e poco dopo decolleranno alla volta del Kazakhstan con il jet privato arrivato dall'Austria.

Fuga in auto da Roma
Venera torna a casa distrutta, incontra il marito rilasciato dagli agenti e con Malina, l'altra figlia di Abyazov, decidono di non dormire una notte di più in Italia, affrontando un viaggio di 9 ore in auto fino al confine svizzero. «Eravamo partiti da neanche 10 minuti - ricorda Madina - e le auto della polizia ci hanno fermato, chiesto i documenti, dicevano che cercavano due bambini scomparsi. È stata una maniera per intimorirci. Siamo ripartiti e non ci siamo più fermati, fino all'arrivo in Svizzera».

«La Farnesina non chiama Alma»
Alma e Alua in Kazakhstan sono «ostaggi di Nazarbayev, un presidente-despota che non teme niente e nessuno» dice Madina, secondo cui «la loro sicurezza dipende ora soprattutto dall'Italia» e dunque si chiede «perché dieci giorni fa la Farnesina mi ha chiesto il suo telefono ad Almaty, gli ho dato tre numeri ed ancora nessuno l'ha chiamata. Non lo ha fatto né il console né l'ambasciatore né nessuno da Roma».

Il messaggio ai compagni di scuola
Quando l'intervista finisce l'unica a essere rimasta in silenzio è la piccola Adiya. Si avvicina e mi dà un foglio di carta piegato. È la copia della lettera che ha mandato alla sua insegnante Mrs Coursier per far sapere, a lei e alla classe, che non sarebbe più tornata. «Mi dispiace non tornerò più perché la polizia italiana ha rapito mia cugina e la madre, ed ha picchiato mio papà, grazie di essere stati con me quest'anno, vi voglio bene». Con di seguito i disegni dei poliziotti che inseguono Alma e Alua.

 

 

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