LA STORIA E LE STORIE DI PASQUALE SQUITIERI, IL CUI FILM PIÙ ASSURDO È QUELLO DELLA SUA VITA

Malcom Pagani per "Il Fatto Quotidiano"

Con l'arroganza di chi ha sconfitto anche il tumore, Pasquale Squitieri fuma e se ne fotte. Dell'età che passa, della tosse cavernosa, dei clienti del ristorante che osservano indecisi la nuvola azzurra e prima di azzardarsi a protestare, incontrano il suo sguardo. Fa paura. Anche a 74 anni. Gli occhi chiari. L'ascetica magrezza. Il ghigno megalòmane.

Con la risata piena di uno dei tanti cattivi dei suoi film, questo ex avvocato penale che sull'esempio di André Cayatte, alla teatralità del tribunale ha preferito le sequenze del cinema, viaggia da sempre con la libertà del cane sciolto. Con il guinzaglio allentato sul paradosso, in ordine sparso, ha sparato a fotografi insistenti, recitato da Deputato della Repubblica, picchiato poliziotti per galanteria, affrontato l'isolamento carcerario, diviso ore d'aria con rivoluzionari e mafiosi. Fuori dal clan, Squitieri mette il naso nelle vicende italiane da 44 anni. Iniziò nel'69 con Io e Dio.

De Sica produttore, i preti di frontiera con il fucile in mano: "Lo mostrerei a Papa Francesco". Poi camorristi e mafiosi, amanti legate al destino dei gerarchi, destra e sinistra, senza appartenenze certe: "Mi hanno detto fascista, provocatore o terrorista, ma io sono solo curioso. Racconto storie e questo, nell'eterna notte creativa del due camere e cucina, infastidisce". L'ultima, un inquietante apologo sulla modernità, con un uomo del futuro diviso tra l'apparire e l'essere, si farà presto.

Il suo film numero 23. Squitieri partì da Napoli: "Pio, il fratello di mio padre, lavorava con Ettore Giannini, il creatore di Carosello napoletano. Papà voleva mi laureassi. Gli resi giustizia, ma nel '63, quando seppi che Rosi stava per girare Le mani sulla città andai da Giannini che lo aveva ingaggiato giovanissimo e gli chiesi di buttare giù due righe di raccomandazione: "Scrivigli che ci vado da volontario, anche gratis".

Le consegnò a Rosi?
Era circondato da nugoli di aiutanti. Lo incontro al bar e mi mette nelle mani di un tipo che mi tratta come una pezza da piedi: "Presentati all'alba a Fuorigrotta". Alle 6 già presidiavo la posizione. Annunciato da una processione, Rosi arriva alle 11. A fargli strada, Nando Cicero. Il suo aiuto regista.

L'autore di Ultimo tango a Zagarolo e W la Foca?
Proprio lui. Mi guarda e mi dà il benvenuto: "Squitieri, compraci birre e sigarette". Eseguo. Quando torno sul set, Rosi è un puntino all'orizzonte circondato da una zona rossa. Lontanissimo. Il cinema lo conobbi così.

Il film ebbe una lavorazione avventurosa?
Per le riprese era previsto il crollo di un palazzo in via Marittima. Cicero aveva il compito di azionare l'esplosivo. Sbagliò il momento e il palazzo andò in pezzi quando Rosi non aveva ancora girato un solo fotogramma. Nando finì in ospedale. Francesco alternava bestemmie e timori, io ero malinconico. Con le ultime sequenze napoletane la mia esperienza terminava. A Roma, senza una lira, non potevo trasferirmi.

Perse Rosi di vista?
Mi disse: "Non ti dimenticherò" e fu di parola. Mesi dopo mi convocò per affidarmi un ruolo in una Pièce scritta da Patroni Griffi. Io ero dubbioso: "Non faccio l'attore", lui si impose: "Per protagonista voglio uno che sappia esserlo nella vita". Accettai e mi ritrovai immerso in una Roma pazzesca e frocissima. Colta e magnifica come, in seguito, non fu mai più. Patroni Griffi era adorabile, ma aveva il suo protegè, Dino Mele, a cui voleva affidare la parte principale: "Pasquale caro, se vuoi rinunciare, non preoccuparti. Nessuno ti farà causa".

Rosì si alterò, con Patroni Griffi fece quasi a cazzotti e infine ebbi la parte. Un anno di repliche, la pensione divisa con Giancarlo Giannini, il debutto alla Fenice, l'entusiasmo di Flaiano. Poi Rosi, con l'ambizione di fare un film sulle corride, mi trascinò in Spagna.

Bel viaggio?
Incontrammo Orson Welles in un giorno di caldo, sudore e zanzare. Era seduto a tavola, le mani unte, affondate nel cibo, il tono del padrone, un paio di stronzi al suo fianco. Seppe che Rosi, il giovane vincitore del Festival di Venezia, era nel suo stesso albergo. Volle conoscerlo.

I registi sono spesso insopportabili?
Come dice Kant, ogni uomo ha il suo linguaggio. Antonioni era una persona insopportabile, ma faceva film soavi. Michelangelo parlava con il cinema, così come Guttuso che non sapeva mettere 8 parole in fila, si esprimeva straordinariamente con la pittura.

Lei ha affrontato anche Visconti.
Luchino era un poeta e un filosofo dalla misteriosa, affascinante complessità di linguaggio. Con astuzia, potevi insinuarti nelle pieghe del discorso e aspettare che quello sfoggio di cultura passasse senza annichilirti. I Visconti erano capitani di ventura, gente che ti tagliava la gola senza eccessivi scrupoli. Con me fu sempre più che gentile. Un giorno mi invitò a visitare le vetrerie di Murano. Ricordo magico.

Altro suo amico, Sergio Leone.
Un fratello geniale che aveva reinventato, con immaginazione fanciullesca, il più classico e rimaneggiato genere cinematografico, il western. Sergio girò Per un pugno di dollari riutilizzando scenografie abbandonate e con un attore che negli Usa faticava da gregario, Clint Eastwood. Leone mi stimava: "Se avessi girato I guappi, avrei eretto tra me e il mondo un fitto recinto vigilato da almeno 12 segretarie".

Prima di girare, Squitieri fu giornalista.
Praticante a Paese Sera, esperienza magnifica. Una sera, in redazione, sento urlare Palocci, il caporedattore: "Vai al Colosseo, c'è un disoccupato che si vuole buttare di sotto". Arrivo sul posto e comincio a scalare il monumento. Il disperato è lì da 10 ore, sotto c'è una piccola folla con il sindaco in prima fila. Inciampo, rischio la pelle, lo raggiungo, vado al punto: "O scendi subito, andiamo a cena e poi ti faccio un'intervista, oppure non mi vedi più".

E quello?
Scende. Cesare Zavattini, presente alla scena, mi chiese come avevo fatto a convincerlo. Era incuriosito, parlammo, ci incontrammo ancora. Era l'epoca in cui con Scalzone e Volontè animavo Zero, un collettore di contestazioni. Per il Festival di Spoleto, sull'onda del marzo a Valle Giulia, avevo scritto La battaglia. Dopo l'invito, erano iniziati i terrorizzati distinguo.

Massimo Bogiankino, l'erede di Menotti, nicchiava. Così irruppi nel suo ufficio: "Le spiego, non le sto chiedendo di mettere in scena lo spettacolo, ma sono qui per dirle che o lo mettiamo in scena oppure il Festival proprio non inizia". Alla prima purtroppo un poliziotto insultò l'attrice Annamaria Guarnieri e finì a botte. Fui processato per direttissima.

Condanna?
Assoluzione. Anche se con la giustizia qualche problema l'ho avuto. Mi arrestarono nell'81, per un assegno di venti anni prima. Andavo al Festival di Mosca. Razza selvaggia aveva vinto il Festival presieduto dall'anticomunista Rondi. Salgo sull'aereo e si avvicinano due poliziotti: "Il suo passaporto scade tra 15 giorni, se ci segue in questura lo rinnoviamo e la riportiamo qui in tempo per il prossimo volo".

Mi oppongo: "A Mosca, se non mi internano in un Gulag, rimango non più di 48 ore". Quello cambia tono e io capisco che si tratta di un ordine. Arrivo nel cortile del commissariato e vedo avvicinarsi quattro ceffi in divisa. Lì per lì scherzo: "Ragazzi, non sono armato".

Quelli non scherzano.
Il commissario era imbarazzato: "Lei nel '66 era impiegato al Banco di Napoli?". "Sì", rispondo. "Allora questa è la sua firma. Lei ha fatto pagare un assegno risultato falso. È peculato". Mi offrono una scappatoia, rifiuto e finisco in isolamento per 14 mesi. Clelio Darida, il ministro, esultò: "A Squitieri il carcere farà bene". Quando toccò a lui ricambiai con un telegramma: "Carissimo, spero che la galera allieti anche lei".

L'Italia di oggi?
Un ingovernabile agglomerato di 18 lingue differenti. Nessun senso dello Stato. Parlano delle personalità più nobili e le chiamano per cognome, senza suffisso, rispetto, memoria condivisa. "Pertini ha detto così". "Ma come Pertini? ‘Il presidente Pertini, stronzo', dico io". Capisce? In Francia sarebbe impensabile.

 

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