Marco Giusti per Dagospia
Cannes. Finalmente arrivò il canaro. E non si può che essere contenti, dopo santi, lebbrosi, serial killer, godardiani, fofiani, letterati con l’aids, malati terminali, rock-punkettari russi, musicisti polacchi, chewbacca vari più o meno pelosi.
In qualche modo, l’idea centrale che sta dietro e costruisce l’ossatura di questo nuovo, bellissimo e perfetto film di Matteo Garrone, Dogman, pensato e riscritto per molti anni assieme a Massimo Gaudioso e Ugo Chiti, che sbarca a Cannes alla fine di una edizione non così brillante piazzandosi subito tra i possibili vincitori, è quella di una piccola comunità da film western anni ’60, penso a Killer on a Horse che Burt Kennedy diresse a partire da un romanzo di E.L. Doctorow, o allo stesso Liberty Valance di John Ford, che deve liberarsi di un mostro che domina incontrastato il paese.
Un mostro, il pugile Simone di Edoardo Pesce, con volto totalmente trasformato, che non arriva a cavallo, ma su una moto rossa super coatta, e che non ha molto di umano, sempre a caccia di coca, violento e cattivo con tutti, a parte con sua mamma, Nunzia Schiano. Simone vive di prepotenza, come nel migliore dei mondi di Caligari, e domina tutti i tranquilli cittadini del paese, una sorta di Ostia ricostruita come terra di nessuno senza tempo a Castel Volturno, in un set meraviglioso che la fotografia di Nicolaj Bruel trasforma in qualcosa di irreale.
Ma, soprattutto, domina il canaro del posto, Marcellino, interpretato da Marcello Fonte, già assistente di artisti romani con qualche esperienza fra cinema e tv (anche a Stracult…), che non sa come reagire ai suoi soprusi.
Se la storia è quella che ben tutti conosciamo dai tardi anni ’80, e che molto colpì per i risvolti horror delle torture che il pugile, una volta finito nella trappola del canaro della Magliana, subì, e per gli eccessi di cocaina che già allora vennero fuori pesantemente e che rivelarono aspetti finora sconosciuti della periferia romana, il trattamento che ne fanno Garrone e i suoi sceneggiatori è del tutto diverso.
Non solo perché spostano l’azione dalla Roma degli anni ’80 in un posto e in un tempo non definiti, dove il coattume che vediamo è quello del cinema e degli attori di ora, e c’è una bella collezione di facce, da Adamo Dionisi a Mirko Frezza, da Francesco Acquaroli a Gianluca Gobbi, mentre il poliziotto è interpretato da Aniello Arena, il meraviglioso protagonista di Reality. E questo rende il tutto metacinema.
Ma anche perché Garrone&co. tolgono alla storia la componente più horror e trucida, diciamo di genere, puntando invece sulla costruzione del racconto, sull’archetipo western e sul meccanismo che porterà alla vendetta solitaria di Marcellino. Vendetta che lui pensa lo riporterà dentro la comunità, ma che invece lo vedrà solo un’altra volta isolato e perdente. Smontando così i meccanismi del western classico americano e dell’Ostia movie alla Caligari, Garrone si ritrova una macchina perfetta di puro cinema dove far muovere i suoi personaggi. E bene ha fatto a puntare su uno sconosciuto come protagonista e a trasformare del tutto Edoardo Pesce rendendolo irriconoscibile.
Il loro rapporto, che noi vediamo mediato da inquadrature a altezza sempre di Marcellino e che quindi spesso escludono i totali della testa di Simone, è il motore del meccanismo che farà muovere la storia. E più il tutto è indefinito, non detto, asciutto, più funziona sullo schermo. Dove Reality si perdeva, Dogman trova sempre il suo giusto percorso di racconto. Con attori più noti e popolari o riconoscibili, Garrone in un primissimo tempo aveva pensato a Benigni, Ceccherini, Germano, Marinelli, tutto questo avrebbe funzionato meno.
Rispetto a Il racconto dei racconti e a Reality, siamo qui, credo, su un piano di riuscita decisamente superiore. Non è, insomma, un piccolo film, né un semplice ritorno ai temi de L’imbalsamatore. Siamo di fronte a un film che non ha assolutamente nulla di non riuscito o di casuale. Probabilmente uno dei migliori film di Matteo Garrone, se non il suo migliore. Esce in Italia il 17 maggio.