Esce oggi Gran Teatro Italia – Viaggio sentimentale nel paese del melodramma di Alberto Mattioli di cui pubblichiamo un estratto. L'autore presenterà il libro domani al Palazzo Castiglioni di Mantova e il 13 giugno al Teatro alla Scala di Milano
«A Milano per essere riconosciuti come stranieri è sufficiente la domanda: "Andate questa sera alla Scala?". Domanda superflua, oziosa e inutile, domanda che i milanesi non si rivolgono. Per essi non vi sono dubbi: tanto varrebbe chiedere se si vive ancora».
Chi scrive, sulla Revue musicale et gazette de Paris del maggio 1838, è Franz Liszt. Il verdetto non vale solo per Milano e per la Scala, ma per l'Italia intera, senza distinzioni fra metropoli e cittadine, capitali e provincia. Certo, i teatri in generale, e quelli d'opera in particolare, esistono in tutto il mondo. Però soltanto in Italia sono diventati qualcosa di più di un luogo di spettacolo. Sono il fulcro della vita non soltanto musicale, ma anche mondana, sociale, civile: il centro del centro cittadino.
Come la piazza o la cattedrale. Fra la città e il suo teatro d'opera c'è una simbiosi, un'attrazione, una corrispondenza d'amorosi sensi che hanno forgiato l'identità di entrambi: la città è così perché così è il suo teatro, e viceversa.
Da palchi e gallerie si sviluppa un'antropologia spicciola, fatta di mode e modi sociali, di vicende pubbliche e private, di gusti e disgusti artistici, di corsi e ricorsi politici che modellano il carattere cittadino e poi quello nazionale di un'Italia che rimane però saldamente disunita anche quando è finalmente unita. In un Paese policentrico dove ogni 30 chilometri cambia tutto, lingua, cucina, usi, costumi, rendendo di fatto impossibile governarlo, il teatro d'opera è uno dei pochi interessi condivisi, comuni, davvero «nazionali» e anzi nazionalpopolari, ma in ogni luogo in maniera un po' diversa.
Un altro aspetto che colpisce dei teatri italiani è che c'è posto per ogni classe sociale.
L'aristocrazia e in generale le classi elevate stanno nei loro palchi, più pregiati quanto più sono vicini a quello reale; la borghesia in platea; il popolo nelle gallerie. Segno che la passione per il teatro, e specie per il più italiano dei teatri, quello d'opera, non era appannaggio di un'élite, ma della popolazione intera; non di pochi, ma di tutti. Le bande, militari e no, gli organetti, i musicisti girovaghi erano strumenti fondamentali di diffusione dell'opera.
Leggenda vuole che il piccolo Verdi abbia ascoltato le prime note da un violinista che batteva le campagne. Il 24 agosto 1846, Emanuele Muzio, che all'epoca gli faceva da allievo, attendente, segretario, copista e infermiere, racconta ad Antonio Barezzi, pigmalione e suocero del Maestro: «Sono alcuni dì che è sortito un organo ambulante di gran dimensione, il più grande che si sia fatto qui a Milano, ove c'è quasi per intero la Giovanna d'Arco La polizia non permette che lo facciano girare di sera, perché fa unire troppa gente e le carrozze non possono andare, ma solamente di giorno; ma già è lo stesso; quello che succedeva di sera succede anche di giorno; tutti vi corrono ed ingombrano la strada ove si trova l'organo». La scena, per inciso, è riportata fedelmente nel magnifico sceneggiato tivù su Verdi di Renato Castellani – ah, che nostalgia, la RAI sì bella e perduta... L'organetto che blocca il traffico milanese, e con la povera Giovanna poi, non certo uno dei sempreVerdi più pop, ci può far sorridere: è la versione ottocentesca di Spotify, certo, ma anche l'indice di una passione vera, schietta, popolare. E qui, allora, bisognerà pur raccontarlo, questo miracolo dell'opera italiana.
BEPPE SALA - URSULA VON DER LEYEN - IGNAZIO LA RUSSA - GIORGIA MELONI - PALCO REALE DELLA SCALA 2022
Un teatro così difficile, elitario, basato sull'assurda convenzione di gente che discorre cantando, in un italiano letterario che non esiste se non sulla carta, che nessuno parlava e molti non capivano, in forme musicali spesso complesse, diventa però patrimonio e passione e coscienza comune per colti e ignoranti, ricchi e poveri, patrizi dei palchi e plebei del loggione. Ci sono soltanto due paragoni possibili, nella storia del teatro che è poi quella della civiltà: l'Atene di Pericle e la Londra di Shakespeare.
È l'utopia realizzata, la grande arte per tutti e di tutti, il teatro come identità, comunità, partecipazione. Tutti abbiamo conosciuto qualche donna di servizio o artigiano che non avevano neanche la quinta elementare e si esprimevano in dialetto, ma cantavano Verdi o Puccini e ne conoscevano a memoria i libretti, forse senza capire ogni parola, anzi sicuramente; ma il senso della vicenda, il suo significato, il suo valore morale, sì.
Aprite uno di quei curiosi reperti del passato che sono gli elenchi telefonici, magari di qualche città emiliana: un tempo, rigurgitavano di Aide e Manrichi, di Violette e di Otelli. Il rischio del folklore o dell'aneddotica è dietro l'angolo, lo ammetto. Un bambino che si chiama Radamès fa ridere. Ma il mondo e la civiltà che ci sono dietro andrebbero presi terribilmente sul serio.