Alberto Riva per “il Venerdì - la Repubblica”
I dischi che hanno cambiato il destino del jazz si contano sulle dita di una mano.Kind of Blue, che Miles Davis incise nel 1959, è uno di questi.Verso il finale del millennio, lo scrittore americano Ashley Kahn, che sul quel disco avrebbe scritto un libro, rifletteva: «Conoscevo bene quell' album perché lo avevo ascoltato per anni, ma la sua capacità di seduzione non era diminuita.
Conservava ancora il potere di far calare il silenzio intorno a sé». Anche oggi, che dalla sua uscita di anni ne sono passati sessanta, il potere di Kind of Blue è intatto, il disco continua a imporre il silenzio. «Il jazz era entrato nella sua alta modernità» sancisce Alex Ross nel suo saggio Il resto è rumore.
Kind of Blue fu una pietra miliare per tante ragioni, ma soprattutto perché in sala di incisione con Miles s' incontravano il pianista Bill Evans e il sassofonista John Coltrane, musicisti che ancora oggi sono punti di riferimento di stile, suono, tecnica e capacità di composizione istantanea. Ma non solo: Alex Ross fa notare che «il disprezzo modernista per le convenzioni» di quei personaggi e il fatto che si potesse improvvisare «a ruota libera su un paio di armonie» influenzò anche la musica contemporanea, il minimalismo di musicisti come Steve Reich.
Miles Davis, presentandosi in studio con dei foglietti su cui erano segnate scarne annotazioni, assistito dai suoi sodali (oltre ai due citati c' erano Cannonball Adderley, Paul Chambers, Jimmy Cobb e Wynton Kelly), aveva dato vita a un disco che, come aveva fatto Stravinskij al principio del secolo XX, allargava - e allarga ancora - le nostre capacità di ascolto, il nostro sapere uditivo. I brani contenuti nel disco - So What, Freddie Freeloader, Blue in Green, All Blues e Flamenco Sketches - sono tuttora, ognuno a suo modo, sfide aperte per qualsiasi jazzista e rappresentano, nella loro sequenza, L' uccello di fuoco del jazz.
Ma Miles non si fermò lì, andò oltre. Passati dieci anni, nell' estate del 1969 registrò un altro disco che, uscito pochi mesi dopo, nel 1970, stravolse di nuovo le regole. Si intitolava Bitches Brew. Se Kind of Blue era stato un punto di arrivo, la canonizzazione ultramoderna di tutto quanto era accaduto prima, Bitches Brew funzionava invece da grimaldello per il suono degli anni Settanta, aprendo le porte al jazz-rock, al jazz-funky e alla fusion.
Come è accaduto per Kind of Blue, non trattandosi soltanto di un disco ma di una vera e propria avventura artistica, qualcuno si è incaricato di scrivere un libro per raccontarne la storia. Questa volta si tratta di George Grella Jr, critico e compositore, autore di Bitches Brew. Il capolavoro di Miles Davis che ha rivoluzionato il jazz, in uscita ora per minimum fax (traduzione di Michele Piumini, pp. 144, euro 13). Una densa e appassionata cronistoria di quel doppio album per il quale Miles chiamò a raccolta il meglio della generazione dei musicisti emergenti, da Chick Corea a Joe Zawinul, da John McLaughlin a Lenny White, da Jack DeJohnette a Dave Holland, fino al sax tenore di Wayne Shorter; di fatto in quel crogiolo di personalità c' era in germe il gruppo dei Weather Report, che sarà un caposaldo della fusion per i due decenni a venire.
miles davis per guy le querrec
Il suono era elettrificato: due bassi, tre piani elettrici, due batterie, congas, sassofoni: brani lunghissimi, cavalcate ipnotiche dall' effetto, sugli ascoltatori dell' epoca, affascinante ma anche sconcertante. Lo stesso Grella, racconta, aveva quindici anni e restò basito difronte alla direzione del tutto nuova presa da Miles. Ma poi sintetizza bene: «Bitches Brew è una grande opera di musica astratta che si muove tra suoni, ritmi e riff della musica commerciale». Spiega: «È musica tra le più sperimentali e d' avanguardia mai realizzate nella storia della cultura occidentale, ma allo stesso tempo è uno strepitoso successo discografico, uno degli album di Miles più venduti di sempre».
Il trombettista era già il jazzista più famoso in circolazione (forse secondo solo a Louis Armstrong), ma era ancora un bopper, ancorché abbigliato come un' eccentrica rockstar, e quella sterzata divise i recensori. Rolling Stone parlò di «magnificenza», il New York Times salutò la «maestria formale nell' improvvisazione». Ma quel «ribollente» sound a mezza strada tra la discoteca e il rito sciamanico era un salto che alcuni non digerirono, specialmente tra gli esponenti della cultura afroamericana. Stanley Crouch, poeta e critico, ci andò giù durissimo: «Davis è diventato il più straordinario leccapiedi dei paperoni dell' industria musicale». Grella spiega che per i difensori del purismo del jazz il concetto di «fusion» equivaleva a una parolaccia: era vendersi al mercato. Il fatto è che Miles apparteneva al suo tempo, quello della pop art e delle contaminazioni, e intercettava segnali provenienti da ogni dove: stava per fare un disco con Jimi Hendrix, quando il genio della chitarra morì, a ventisette anni.
L' importanza di Bitches Brew, scrive Grella, si è vista dopo: «Carlos Santana, Bill Laswell, i Talking Heads, Jon Hassell e persino Thom Yorke hanno tutti riconosciuto l' impronta indelebile dell' album su di loro». E risulta ben chiaro, ascoltandoli oggi, che esiste un filo che unisce Bitches Brew al suo progenitore Kind of Blue: in entrambi si sente vibrare la forza anticipatrice di Miles Davis, ed è sorprendente come il suono della sua tromba continui ad arrivarci dal futuro.
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