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NINETTO MEMORIES: "A PASOLINI DAVO LA MIA SPONTANEITA' E LUI LA TRASFORMAVA IN ARTE. A VOLTE CERCAVO DI FARE IL FORBITO, E LUI: “’A NINÉ MA DILLO COME ’O DIRESTI TU, NO?" - LUI MORTO? MACCHÉ. COME FA A MORIRE UNO CHE HA PREDETTO IL NOSTRO FUTURO?"

Giuseppe Videtti per “la Repubblica”

 

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Roma, periferia est. Alluminio anodizzato a incorniciare gli abusi che negli anni Settanta sfregiarono l’edilizia spontanea del Dopoguerra. La periferia di Mafia Capitale è terra di gramigna, tra polvere e caligine i ragazzini si rincorrono lanciandosi pallonate e parolacce, dalle finestre un odore penetrante di soffritto e una voce di donna che strilla un elenco di nomi da telenovela; a tavola!

 

«Eravamo felici e non lo sapevamo», mormora Ninetto Davoli seduto in un angolo del teatrino accanto alla parrocchia dove sta provando Il vantone - Miles gloriosus di Plauto tradotto in romanesco da Pierpaolo Pasolini, stasera in scena al Festival di Spoleto (regia di Federico Vigorito; con Ninetto anche Edoardo Siravo e Gaetano Aronica).

 

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«La Roma di Pasolini è la mia Roma da ragazzo. Una città splendida e festosa, più verace e solare. C’erano un’altra sensibilità, un’altra poesia, un altro odore, altri modi di vivere, volemose bene, concedersi. Nelle borgate, porte di casa sempre aperte, le chiavi nella toppa, signo’ ciavete ’n goccetto d’ojo che l’ho finito? eravamo una grande famiglia.

 

Pierpaolo adorava quella semplicità e quella sensazione di estrema libertà, era sedotto dalla sincerità, dall’ingenuità, dalla purezza di noi ragazzi di borgata. Oggi non ci si guarda più in faccia, perché tutti abbiamo la coscienza sporca. E si corre, ci si affanna per un’altra automobile e un altro cellulare. Non mi faccia ripetere luoghi comuni — se stava mejo quanno se stava peggio — ma è proprio così».

 

Pasolini aveva appena finito di tradurre il Miles quando conobbe Ninetto adolescente, nel 1963. «La prima volta che feci Il vantone fu vent’anni dopo con Franco Citti nel mitico Tendastriscie di Roma, e di nuovo nei primi anni Novanta con Paolo Ferrari», ricorda. «Riprenderlo ora è una gioia, quest’anno si celebrano i quarant’anni della morte di Pasolini, 2 novembre 1975. Sarà molto impegnativo per me, conferenze e proiezioni in tutt’Italia.

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La più grande soddisfazione è quando mi chiamano al MoMa di New York o a Londra o San Francisco o a Parigi o a Berlino a presenziare mostre e eventi dedicati a lui. È amato, dai giovani soprattutto. Vogliono sapere, lo studiano, sono incuriositi da un pensatore così lungimirante. Mi toccano come un santo solo perché l’ho conosciuto, come fossi un discepolo rimasto sulla Terra a diffondere il suo verbo».

 

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Aveva sedici anni quando Pasolini gli propose una particina nel Vangelo secondo Matteo. Lui si vergognava, la cinepresa gli sembrava un mostro, non aveva mai sognato e tantomeno sperato di fare cinema. «Per me gli attori erano Totò e Charlot e Stanlio e Ollio », dice. «Pierpaolo mi rassicurò, non devi far nulla di trascendentale, solo quello che ti dico io, guarda qui, guarda là, sorridi. Fu più problematico in Uccellacci uccellini , lì dovevo anche parlare. 

 

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Ero un ragazzino, terrorizzato di trovarmi davanti a Totò, l’idolo che avevo adorato al cinema. Con lui e Pierpaolo feci anche Che cosa sono le nuvole? e La terra vista dalla luna , prima che il Principe morisse, nel ’67. Ecco come, improvvisamente, mi sono ritrovato a fare questo lavoro. Non oso ancora dire attore, attore è Gassman (col quale feci Affabulazione ), io faccio me stesso, e per quello non c’è bisogno di scuola. Non mi costa fatica, non metto in moto strategie».

 

I riccioli generosi sono gli stessi, candidi ormai, gli occhi festosi e la faccia paffuta sempre quelli, Davoli non ha perso la romanità allegra e caciarona che conquistò Pasolini e che ora si riaccende di vitalità nel Vantone . «Pierpaolo non chiese a nessuno consulenze sul dialetto», ricorda Davoli, «aveva lavorato a lungo con Sergio Citti, uno che viveva alla Marranella, un romano vero. Quando arrivò dal Friuli furono i Citti a guidarlo nella capitale.

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Poi cominciò a condividere anche con me il dialetto, esaltò la mia romanità e insieme al dialetto la gestualità. Devi esse Ninetto, mi diceva. A volte cercavo di fare il forbito, e lui: “ ’A Niné ma dillo come ’o diresti tu, no? ”. Pierpaolo si aggrappava a me. Era come uno scambio di vite: io gli offrivo la mia spontaneità, lui la trasformava in arte».

 

I Davoli erano arrivati a Roma da San Pietro a Maida, provincia di Catanzaro, quando Ninetto aveva quattro anni, nel 1952. «Salimmo quassù a cercar fortuna. E io per la verità l’ho trovata», sussurra distogliendo commosso lo sguardo. Poco tempo per il sussidiario. Alla Borgata Prenestina anche i ragazzini aiutavano la baracca. «Facevo il falegname, lucidatore di mobili, lavoravo per la famiglia, come si faceva una volta. Ho fatto il barbiere e il cascherino, la mattina a scuola, il pomeriggio a imparare un mestiere».

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Il garzone del fornaio in bicicletta l’ha poi rifatto da attore in una pubblicità fortunatissima, dal 1971 al 1983. «Non aspiravo a diventare un numero uno, neanche in falegnameria per dire. Lavoravo e basta». Pasolini non l’avrebbe neanche notato se fosse stato uno dei tanti pieni di sovrastrutture e «grilli per la testa». Lui, nelle borgate, cercava materia prima per sceneggiature e scritti corsari.

 

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Da lì era uscito Ragazzi di vita , il romanzo del 1955; lì era ambientato Mamma Roma , il film del ’62 che Ninetto neanche aveva visto quando pochi mesi dopo incontrò quel tizio che gli propose di far l’attore. «Mi chiese dove abitavo. Gli dissi: qualche sera vieni da me che te faccio conosce mi’ padre e mi’ madre . Venne e restò a cena, mangiando quel che si mangiava in casa. I miei lo ammiravano, non perché conoscessero il suo cinema (non lo conoscevo manco io), ma per la gentilezza, la semplicità e l’umanità. Lo chiamavamo “Signor Paolo” — nessuno era mai stato così gentile e disponibile e umile con noi.

 

Ci siamo frequentati per tredici anni, nove film insieme. Ogni giorno per me un evento: le partite di pallone, i sopralluoghi, il set, le vacanze. Nel 1965 mi portò a New York. Su ’na machina scappottata, lunghissima da qui a là, in mezzo a tutti quei palazzi… Si viveva con gioia. In borgata, tutti increduli, curiosi, contenti. Pensi che successe quando videro sui giornali le foto di Cannes, io in posa co’ ’a farfalletta accanto ad Alfredo Bini e Pierpaolo — me sentivo come se ciavessi er torcicollo. E chi se l’era mai messo er vestito co’ ‘e scarpe lucide? Facevo un po’ er fanatico, come fanno i regazzini ».

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Si sentì orfano, disorientato, perduto, dopo l’assassinio del regista. Non ha mai smesso di dire come la pensa, che Pelosi quella notte lì non era solo, che Pierpaolo era scomodo perché guardava lontano e non conosceva altra dittatura che quella della verità. «Per me non è mai morto, come fa a morire uno che ha predetto il nostro futuro? È sempre qui dentro. Mi consulto con lui, ancora oggi. Prima di accettare una parte, gli chiedo (scruta un punto lontanissimo, sorride): “ A Pa’ che dici? Se po’ fa’? Ci’a farò? ”. Lo sogno spessissimo, noi insieme sul set. Gli dico: “ A Pa’, ma tu sei morto ”.

 

E lui: “ Ma che morto, te sembro morto ?”. Io Pierpaolo lo vivo. Ancora. I miei due figli si chiamano Pierpaolo e Guidalberto, che è il nome del fratello minore di Pasolini (partigiano morto diciannovenne nell’eccidio di Porzûs). Li ha battezzati entrambi, è il loro compare».

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Ninetto ha interpellato Pierpaolo anche quando gli hanno chiesto di rifare Il vantone : «“ A Pa’, ariecchice n’artra vorta” . E lui sereno, “ Bene, bene ” ». Dopo il recente Nastro d’argento alla carriera: «“ A Pa’, se so’ ricordati de me. Ma mica è finita, ne vojo n’artro ” ». E quando gli offrono un filmaccio utile solo per sbarcare il lunario: «“ Pa’, che dici? ’O faccio? ” ».

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Il cinema non è più quello di allora. Davoli è spaesato nel panorama odierno, più serial tivvù che film. Nessuno riuscirà a strappargli la maschera del ragazzo innocente, sereno e incosciente che fece la sua fortuna anche in film controversi come Il fiore delle mille e una notte e Teorema ; è la sua, di Ninetto. «Tanto tempo fa, quando feci Casotto con Sergio Citti, chiesi a Paolo Stoppa: “Ma secondo te il cinema tornerà come prima?”. Rispose: “ A Nine’, quanno uno more more, mica resuscita” ».

 

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