Marco Giusti per Dagospia
Ma sì che l’ho visto “Becoming Led Zeppelin”, lunghissimo e documentatissimo primo documentario ufficiale sui Led Zeppelin diretto da Bernard MacMahon. Non avrei voluto parlarne perché non sono un esperto come Dago, che impazzirà solo per la mole di clip di programmi televisivi anni ’60 e ’70. La verità è che è un documentario abbastanza strano, visto che per un’ora esatta, con interviste ai tre sopravvissuti, Robert Plant, Jimmy Page e John Paul Jones, il quarto membro della band, John Bonham è morto nel 1980 e è presente solo con una vecchia intervista radiofonica, ci presenta non la costruzione del gruppo, ma tutto quello che hanno sentito, amato e suonato prima di esplodere nel 1968 e proseguire negli anni successivi.
A cominciare da una valanga di amori musicali meravigliosi, Bo Diddley e Little Richard, certo, ma anche il clamoroso cantante folk scozzese Lonnie Donegan e il Johnny Burnett Trio. Collaborazione, almeno da me, mai sapute. Jimmy Page che suona con tutti nelle sessioni londinesi degli anni ’60, dalla canzone dei titoli di testa di “Goldfinger” con Shirley Bassey (c’è un repertorio favoloso), “Downtown” di Petula Clark, che ritroviamo anche in “Last Night at Soho” visto in questi giorni, session con gli Who, con David Bowie, con i Rolling Stones. John Paul Jones che fa gli arrangiamenti addirittura per “Mellow Yellow” di Donovan. E vengono fuori storie mai sapute che raccontano i tre arzilli settantenni. Come la tourné di Jimmy Page con gli Yardbirds, che ha un peso non indifferente nella formazione dei Led Zeppelin.
O Robert Plant che va a sentire il concerto del più grande suonatore di armonica blues di ogni tempo, lo sdentatissimo Sonny Boy Williamson. Se lo ritrova in bagno mentre sta pisciando. Gli chiede un autografo e Sonny Boy lo manda affanculo. Ne vorremmo sentire per altre tre ore, ahimé. Perché i tre sembra che abbiano veramente attraversato tutta la musica che si faceva in Inghilterra negli anni’60. Al punto che quando si ritrovano come Led Zeppelin lo spettatore è da un’altra parte. E per la loro storia, raccontata tutta in prima persona, ci vorrebbe allora un altro film. Che non c’è. Perché, come fanno giustamente notare alcuni critici un po’ incazzati, non sono stati intervistati produttori, amici, agenti legati ai loro dischi e ai loro tour. Tutto è autocelebrativo e visto solo dalla loro parte.
Così facendo, la storia dei Led Zeppelin, alla fine, è meno interessante del becoming, del prima che diventassero gruppo. Ma la prima ora con qualsiasi materiale presentato al meglio e al peggio, c’è pure un nastro rovinato fantastico e davvero mai visto, è qualcosa di incredibile.
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