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GIÙ LE MANI DAGLI SHORTS – IN ISRAELE IL PRESIDE ALLONTANA LE ALLIEVE DI UNA SCUOLA MEDIA CHE SI ERANO PRESENTATE A SCUOLA CON I PANTALONCINI PERCHÉ “TROPPO POCO VESTITE”: LE RAGAZZE TORNANO A CASA E LANCIANO UNA PROTESTA SUI SOCIAL CHE COINVOLGE ALTRE SCUOLE NEL PAESE IN CUI RESISTE L'ATAVICA CONTRADDIZIONE TRA L'EDONISMO VISCERALE DI TEL AVIV E L'ANIMA HAREDIM

Francesca Paci per “la Stampa”

 

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Giù le mani dagli shorts. Mentre Israele si prepara all' estate più calda di sempre, con il termometro meteorologico ben oltre i 40° e quello politico tarato sul processo del secolo contro il premier Bibi Netanyahu, tocca alla scuola, appena riemersa dal lockdown, affrontare la prima grana del dopo-Covid: la protesta delle studentesse per il diritto a indossare i calzoncini con buona pace di moralisti estetici e religiosi. Un vezzo modaiolo diventato di fatto questione di gender ma anche, ancora, l' atavica contraddizione del Paese tra l' edonismo viscerale di Tel Aviv e l' anima haredim.

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La storia inizia una settimana fa quando il preside della Alon Middle School di Ra' anana, la città che nel 2018 ha eletto con Eitan Ginzburg il primo sindaco israeliano dichiaratamente gay, rimanda a casa un gruppo di ragazze ree di sfoggiare jeans ritenuti troppo corti. Tempo un paio d' ore e le reiette occupano il web, postano foto, denunciano il paternalismo di un sistema scolastico che si vorrebbe laico ma, dicono, da anni cede terreno all' oltranzismo religioso.

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Il tam-tam dilaga, ogni istituto detta le proprie regole e spesso non sono neppure particolarmente restrittive, ma il tema fa breccia in una generazione orfana di sogni: in pochi giorni mostrano le gambe sui social le suffragette di Kfar Saba, Modi' in, Lod, a Gedera l' agit prop piega infine la direzione didattica della Darca Menachem Beghin High School e 150 paia di shorts entrano trionfanti in classe nell' applauso ammirato dei compagni.

 

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«Finalmente ci facciamo sentire, questi divieti nascondono il tentativo d' infiltrare tra i banchi il valore religioso della tzniut, quel pudore da cui derivano gli abiti soffocanti delle donne di Mea Sharim» conferma a «La Stampa» la 14enne Ghila Kalvo, iscritta all' istituto d' arte di Gerusalemme, nulla di culturalmente più lontano dal nero integrale degli ebrei chassidici reso celebre dalle serie tv «Shtisel» e «Unorthodox».

 

Con il dibattito politico che intreccia la sicurezza da cui dipende la pace o la guerra con i palestinesi all' identità nazionale cavalcata dai partiti ultra-ortodossi, anche l' abito fa il monaco. Soprattutto in un Paese che, a prescindere dal giudizio divino e forse molto invece per via della sua spartana origine kibbutzim, è irriducibile all' idea stessa di dress code.

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Due anni fa fu la Knesset, il parlamento israeliano, a finire nella bufera per il tentativo di mettere un nuovo limite alla già regolamentata passerella di jeans, minigonne e infradito sfoggiati da deputati e giornalisti con la naturalezza con cui a Palazzo Madama si accede in giacca e cravatta.

 

«Diciamo che l' eleganza non è esattamente il vanto nazionale, deriva dal nostro essere mediorientali, viviamo all' europea ma non viviamo in Europa» osserva Anat Lev-Adler, storica caporedattrice del settore lifestyle del quotidiano "Yedioth Ahronoth", ammettendo di riconoscere con un' occhiata i connazionali all' estero.

 

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Eppure, nella protesta degli shorts, Lev-Adler vede molto di più, un' alzata di scudi femminile importante nelle settimane virulente in cui anche Israele ha visto aumentare la violenza domestica: «Sono fiera di queste ragazze, segnano un passo importante, rivendicano il diritto di non farci imporre da nessuno il codice di condotta o l' abbigliamento, chiedono conto del fatto che, al contrario, nessuno contesti mai l' informalità talvolta davvero discinta dei coetanei».

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