“MIO PADRE ERA RIGIDO, ASSENTE, SEMPRE IN GIRO. A UN BAMBINO NON SERVE UNA LEGGENDA, SERVE UN PADRE E LUI NON LO È MAI STATO" – SIMON MESSNER, FIGLIO DI REINHOLD, A BREVE GIRERÀ UN FILM SUL PADRE E FA CAPIRE CHE NON SARÀ MOLTO TENERO: “IL TERZO MATRIMONIO MI DÀ MOLTO FASTIDIO. NON CI SONO ANDATO. NON ACCETTO CHE SUA MOGLIE ABBIA L’ETÀ DI MIA SORELLA” - "LA MIA PASSIONE È L’ALPINISMO E NON È STATO LUI A TRASMETTERMELA. NON CI SONO MAI ANDATO INSIEME IN ARRAMPICATA NÉ MI HA MAI...”

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Silvia M. C. Senette per www.corrieredelveneto.corriere.it

 

Schivo, riservato, di una gentilezza rara. Simon Messner, figlio trentenne del «Re degli Ottomila», è quanto di più lontano si possa immaginare rispetto all’alpinista brissinese Reinhold Messner, noto per il suo carattere determinato, spigoloso e a tratti burbero. Differenze che, negli anni, hanno tracciato un solco incolmabile tra i due.

 

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Pur lavorando fianco a fianco per i progetti della «Messner Mountain Movie», la loro casa di produzione cinematografica, conducono vite parallele che hanno come unici punti di contatto i documentari di cui Reinhold — che Simon chiama per nome — è ideatore, sceneggiatore e spesso protagonista. Il giovane regista si divide tra i lungometraggi «di famiglia» e la passione per l’alpinismo che ha scoperto «da solo a 17 anni vincendo le vertigini e gli attacchi di panico».

 

Oggi l’amore per le vette è diventato la bussola della sua vita. «Sto preparando una spedizione in Pakistan. A fine mese io e Martin Sieberer, un amico alpinista austriaco, andiamo sul Karakorum per risalire una montagna di settemila metri mai scalata. Non sarà facile, il clima è diventato molto caldo e se non c’è ghiaccio può diventare pericoloso».

 

Cosa la affascina di questa sfida?

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«Il fatto che il K2 sia più famoso e a portata di mano, ma troppo battuto. Due anni fa abbiamo scalato per primi il Black Tooth e, se riusciamo, in questa spedizione faremo qualche ripresa. Fare il film-maker è il mio lavoro, ma la mia passione è l’alpinismo. E non è stato Reinhold a trasmettermela».

 

Perché non ha preso un’altra strada?

«Sarebbe stato tutto molto più facile. Ho scoperto la montagna piuttosto tardi, a 17 anni, proprio perché la tematica era così presente in casa e non mi interessava. Ma poi, quando ho provato ad arrampicare, mi ha conquistato. Eppure soffrivo di vertigini: da piccolo bastava un’altezza di due metri e mi prendeva il panico. Poi quando tornavo a terra volevo risalire per capire cosa mi faceva paura. Così, vincendo i miei limiti, sono diventato un alpinista».

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Come reagiva suo padre alle sue difficoltà?

«Non ne ho idea, non c’era. Non sono mai andato con lui in arrampicata né mi ha mai portato nelle sue avventure. Ma in quota impari molto dalle emozioni che vivi, dalle paure che devi superare: è un rapporto molto intimo e personale che riguarda solo te e le montagna».

 

Tutti i suoi film hanno per protagonista la montagna.

«È il filo rosso della mia vita. Abbiamo concluso da poco “Niemandsland” (terra di nessuno): un film sull’inglese Beatrice Tomasson che agli inizi ‘900 ha fatto la prima ascensione della parete sud della Marmolada e del Monte Zebrù, e sulle due guide che erano con lei, Michele Bettega e Bortolo Zagonel, legati da profonda amicizia ma divisi dalla guerra».

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Da poco, invece, ha iniziato le riprese di un documentario drammatico.

«Ricostruisce la tragica spedizione sul Manaslu del 1972. Reinhold aveva solo 28 anni e perse due compagni in quella tempesta. Il film inizia con il raduno a Castel Juval, la residenza di Reinhold in Alto Adige, dei veri sopravvissuti che ricordano l’accaduto. Abbiamo fatto riprese fantastiche dall’elicottero per raccontare una storia molto forte e far capire in quali condizioni si arrampica, ma anche ammettere che l’alpinismo è una disciplina egoistica: chi parte sa che può non tornare ma non pensa a chi gli sopravviverà».

 

Altre passioni, oltre a film e arrampicata?

«Mi occupo delle aziende agricole a Castel Juval. Tre anni fa Reinhold mi ha lasciato un maso molto impegnativo circondato da vigne: è una zona famosa per il Riesling e pare che il nostro sia uno dei migliori d’Italia. Abbiamo anche Pinot Nero e Pinot Bianco, ma non c’è un’etichetta Messner».

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Vita privata?

«Ho una fidanzata, Anna, che ha 30 anni come me. È austriaca e viviamo insieme a Innsbruck. Lei non scala: ci siamo conosciuti cinque anni fa nel laboratorio in cui abbiamo scritto la tesi per il master in biologia molecolare. Vorrebbe sposarsi, ma io non sono interessato al matrimonio».

 

Suo padre, invece, ci crede tantissimo: si è appena sposato per la terza volta. Che effetto le fa?

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«Devo dire che mi dà molto fastidio. Non sono andato al matrimonio; non sono stato invitato. Non accetto che sua moglie abbia l’età di mia sorella. Ma lui è Reinhold: se ha qualcosa in testa lo fa. E io tengo le distanze. Non è più come una volta».

 

Com’era una volta?

«Non è mai stato facile. Lui non lascia molto spazio libero agli altri ma finché ero giovane era più semplice. Oggi non voglio più cercare di farmelo andare bene: io ho la mia vita e lui la sua».

 

È complicato condividere il set?

«Mi fa soffrire ma lui è il boss, da sempre. La nostra non è mai stata una relazione padre-figlio, lui non è un genitore come gli altri».

 

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Che padre è stato Reinhold Messner?

«Rigido, assente: era sempre in giro. Ha la testa dura come il marmo e può essere molto volubile. Non è stato facile essere il figlio di una leggenda: tutti lo vedono come un mito ma a un bambino non serve una leggenda, serve un padre e lui non lo è mai stato. Cercherò di fare meglio quando avrò dei figli miei».

 

Sogni nel cassetto?

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«Tantissimi e tutti hanno a che fare con l’arrampicata su montagne inviolate. Per me ha un valore inestimabile, sono obiettivi che mi rendono felice. Come le sei settimane che mi aspettano in Pakistan: non sono molto social, ma se riusciremo ad arrivare in cima farò un post su Facebook».

 

È schivo anche sul web?

«Sono cresciuto con un padre sotto i riflettori, quando volevo sapere qualcosa di lui dovevo leggere la Bild (il tabloid tedesco, ndr). La vita vera è un’altra cosa, fatta di alti e bassi e non sempre facile. Come la montagna richiede spalle larghe e guardare dritto avanti, sperando che vada tutto bene».

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