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“STO A TORNÀ, FACCIO SALVINI PER LATINA” – L’INCHIESTA CHE HA PORTATO ALL’ARRESTO L’EX CONSIGLIERE REGIONALE DEL LAZIO GINA CETRONE POTREBBE ALLARGARSI: I MEMBRI DEI CLAN ASSOLDATI PER INTIMORIRE GLI IMPRENDITORI CONCORRENTI E GESTIRE LE CAMPAGNE ELETTORALI HANNO DETTO DI AVER SVOLTO GLI STESSI SERVIZI ANCHE PER ALTRI CANDIDATI. E DA UN’INTERCETTAZIONE EMERGE IL POSSIBILE SOSTEGNO A UNA LISTA DELLA LEGA…

Michela Allegri per “il Messaggero”

 

Membri di spicco di clan mafiosi assoldati per intimorire imprenditori concorrenti, per fare recupero crediti e anche per gestire campagne elettorali e garantire visibilità e voti. Sempre con violenza: minacciando gli attacchini di partiti rivali.

GINA CETRONE CON GIOVANNI TOTI

 

È con le accuse di estorsione, violenza privata e illecita concorrenza aggravate dal metodo mafioso che Gina Cetrone, ex consigliere regionale del Lazio del Pdl, è finita in carcere insieme al marito Umberto Pagliaroli e a tre esponenti del clan Di Silvio di Latina: il boss Armando, detto Lallà, e i figli Samuele e Gianluca Di Silvio.

 

ALTRE LISTE

ferdinando pupetto di silvio

Ma l'inchiesta, almeno per quanto riguarda la parte politica, potrebbe essere molto più ampia, visto che membri del clan hanno dichiarato di avere svolto gli stessi servizi anche per altri candidati, di varie liste. E da un'intercettazione emerge il possibile sostegno a quella leghista.

samuele di silvio

 

Nell'ordinanza di arresto il gip Antonella Minunni definisce la Cetrone e il compagno «scaltri e pericolosi», senza scrupoli «nel ricorrere ai Di Silvio per inibire e condizionare l'attività imprenditoriale di un concorrente e per interferire sull'andamento della campagna elettorale».

 

matteo salvini matteo adinolfi

Avevano un tariffario per la cosca: il 50 per cento sul recupero crediti e 25mila euro per garantire la massima visibilità in occasione della corsa a sindaco di Terracina. «Fateve il lavoro vostro e noi famo il nostro, non mi coprite Gina Cetrone sennò succede un casino», le minacce dei boss agli attacchini rivali. «Un patto politico», lo definisce il gip.

 

I COLLABORATORI

gianluca di silvio

Il procedimento è un filone della maxinchiesta ribattezzata «Alba Pontina» sul ruolo dei clan nella provincia di Latina e gli arresti sono stati possibili grazie alle dichiarazione di due collaboratori di giustizia, affiliati al clan, e già sotto processo. È stato uno di loro, Agostino Riccardo, a raccontare dal banco degli imputati di avere svolto la campagna elettorale anche per altri candidati, nel 2016.

clan di silvio

 

In particolare, si sarebbe occupato, dietro pagamento, dell'affissione dei manifesti politici, garantendo che non sarebbero stati coperti da nessuno. Un servizio, a suo dire, svolto anche per Raffaele Del Prete, che a Latina lavorava per le campagne elettorali dell'europarlamentare Matteo Adinolfi, che nel 2016 era tornato in consiglio comunale sotto le insegne di Noi con Salvini.

 

matteo adinolfi

Una dichiarazione che sembra supportata da un'intercettazione. Il 30 maggio 2016, Riccardo telefona a Gianluca Di Silvio e dice: «Sto a tornà, io faccio Salvini per Latina». A smentire le parole del pentito, l'ufficio stampa della Lega, che sottolineando l'estraneità ai fatti, parla di «vergognose e false illazioni su presunti contatti tra la Lega e la criminalità organizzata a Latina». Mentre Adinolfi ha sempre sostenuto di non avere mai avuto contatti con il clan.

gina cetrone 1

 

Sono comunque le confessioni dei due pentiti - oltre a Riccardo c'è anche Renato Pugliese - a consentire agli inquirenti di tratteggiare uno spaccato di malaffare. La Cetrone - ora vicina al movimento «Cambiamo!» di Giovanni Toti, che però smentisce incarichi affidati alla donna - secondo gli inquirenti stringe il primo patto con il clan di Silvio nell'aprile 2016.

gina cetrone 2Renato Pugliese

 

Un imprenditore non ha saldato un debito per forniture di vetro fatte dalla società Vetritalia, dell'esponente politica. Lei lo convoca e insieme al marito chiede l'intera cifra, minacciando l'intervento «degli zingari». Poi, entrano in scena Samuele e Gianluca Di Silvio, e Riccardo. Lo costringono ad andare in banca per fare un bonifico da 15mila euro in favore della Vetritalia e si fanno consegnare 600 euro per il disturbo. Lo raccontano entrambi i collaboratori a verbale.

gina cetrone 3

 

«Un'altra estorsione l'abbiamo fatta su incarico di Gina Cetrone - ricorda Riccardo - Mi chiamò quando ero sorvegliato speciale. Poiché avevamo già preso l'appalto dalla politica pensai che fosse qualcosa attinente la politica. Ne parlammo con Armando e lui disse di andare». Poi, parla del tariffario: «Armando ci disse di ribadire che avremmo preso il 50 per cento». In realtà, per quel servizio avevano ottenuto meno soldi: «Lei ci voleva dare mille euro a testa, accettammo perché disse che ci avrebbe fatto guadagnare con la politica».

 

gina cetrone 6

In settembre, invece, il marito della Cetrone, Pagliaroli, avrebbe ingaggiato Pugliese e Riccardo per intimorire la concorrenza: i due hanno raccontato di avere minacciato un operaio che si era messo in proprio nella produzione di vetro, intimandogli di «non allargarsi troppo con l'attività» e di «stare calmo». Poi, avevano chiesto alla vittima, «per il disturbo», duemila euro.

 

I MANIFESTI

Poi, ci sono le accuse relative alla campagna elettorale. Anche in questo caso, dall'inchiesta emerge il tariffario: 10mila euro per l'affissione dei manifesti, altri 10mila per pagare le auto e la colla, 5mila euro «per la visualizzazione», si legge nell'ordinanza. Riccardo, sentito dagli inquirenti nel luglio 2018, ha raccontato che «Cetrone si era lamentata perché la sua visualizzazione non era buona, non si vedeva abbastanza bene nei manifesti di Terracina».

 

gina cetronegina cetrone 5

Una ricostruzione confermata dal racconto di uno degli attacchini intimiditi: «Era di dominio pubblico come la campagna elettorale di Cetrone era sostenuta dagli zingari. Chiesi a Riccardo il motivo per cui erano stati strappati i manifesti elettorali e sostituiti con quelli di Cetrone. Lui mi rispose con arroganza e prepotenza che loro erano gli zingari di Latina e per questo dovevamo lasciarli stare».

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